di Dario Argento.
con: Tony Musante, Suzy Kendall, Enrico Maria Salerno, Eva Renzi, Umberto Raho, Renato Romano. Mario Adorf.
Thriller
Italia, Germania- 1970
La carriera di Dario Argento rispecchia idealmente l'ascesa e caduta del cinema italiano tutto. Comincia in modo sfavillante, continua facendo affermate l'autore anche sul piano internazionale come una dei più interessanti di sempre e finisce per crollare su sé stessa a causa della perdita di talento, oltre che per l'implosione del sistema produttivo.
Perchè, quando nel 1970 Argento si affaccia al cinema, dopo anni di militanza come criitco su "Paese Sera" e sceneggiatore per il grande Sergio Leone, il cinema italiano è al suo apice: il "genere" portato avanti da Mario Bava, Riccardo Freda, Lucio Fulci, Sergio Martino e company è ammirato in tutto il mondo, mentre il cinema "d'autore" viene riverito a destra e a manca grazie a mostri sacri del calibro di Fellini, Pasolini, Visconti e Leone, osannati come i migliori cineasti esistenti.
Argento riesce, in un certo senso, a fondere le istanze autoriali con le urgenze del registro di genere puro per creare una filmografia ed uno stile personale. Stile che riprende di peso molta della tradizione di Mario Bava, proseguendone il discorso di stilizzazione del filone giallo per portarlo sino alle soglie del horror puro. Fondendolo, inoltre, con quelle del maestro dei maestri Alfred Hitchcock, del quale Argento può essere considerato uno dei due "figli illegittimi" che in quegli anni ne riprenderanno gli stilemi per rileggerli in chiave personale (l'altro è Brian De Palma, che però si cimenterà con il thriller di stampo hitchcockiano solo due anni più tardi con "Le Due Sorelle").
Ma la paternità baviana di Argento non deve trarre in errore: benchè l'influenza del maestro romano sarà fortemente presente nelle sue pellicole sin dall'esordio, non si può parlare di plagio, né di semplice derivatività, quanto della assimilazione totale del'influenza più prossima, quella appunto di uno sguardo talmente vivo e pulsante da essere entrato sotto la pelle di ogni singolo mestierante, italiano e non, che si è o si sarebbe confrontato con l'horror o con il thriller.
"L'Uccello dalle Piume di Cristallo" è un esordio nato dalla necessità. In quegli anni, il grande Goffredo Lombardo aveva bisogno di pellicole piccole ed in grado di conquistare il grande pubblico per tenere a galla la sua Titanus; ed il "giallo", inteso come "thriller all'italiana", all'epoca, non era solo apprezzato nei nostri lidi, ma anche e sopratutto all'esterno, dove il culto di Bava cresceva. Argento arriva così a dirigere una sua sceneggiatura, aiutato nella produzione dal padre Salvatore ed attorniato da professionisti del calibro di Vittorio Storaro ed Ennio Morricone, creando un primo, importantissimo capitolo nella sua personale disanima del thriller.
Roma, lo scrittore americano Sam Dalmas (Tony Musante) reduce da un mediocre trattato ornitologico ed in piena crisi di idee, assiste suo malgrado al tentato omicidio della bella Monica (Eva Renzi). Colto dalla curiosità, decide di aiutare nelle indagini l'ispettore Morosini (Enrico Maria Slerno) improvvisandosi detective.
I debiti di ispirazione verso i maestri sono facilmente ravvisabili: il killer vestito di nero preso da "Sei Donne per l'Assassino" (1964) e l'uomo comune risucchiato in una situazione da incubo come in "La Ragazza che Sapeva Troppo" (1963), oltre che da ogni singolo thriller di Hitchcock. Senza contare il finale, nel quale l'esperto di turno spiega la psicosi del killer come in "Psycho" (1960). Ma Argento va oltre le fonti ed impone un suo stile.
Ripreso il concetto della visione sempre da Bava, viene esasperato sino a divenire colonna portante. Lo spettatore è chiamato ad identificarsi totalmente con il punto di vista di Dalmas e con ciò che ha visto e rimosso. La visione, intesa come percezione del reale, viene costantemente rielaborata dalla memoria sino a mutare, a divenire impressione, sulla cui base poggia tutta l'indagine. La quale, a sua volta, sebbene basata sul classico sistema del "whodunnit", trova nuova linfa vitale nello scompagimento di alcuni suoi elementi essenziali.
La ricerca dell'assassino si svolge essenzialmente tramite l'uso della tecnologia, all'epoca avvenieristica, del calcolatore e dell'elaboratore sonoro. Tuttavia, la costruzione dell'intreccio non poggia sulla razionalità, quanto sul caso. Ogni singolo elemento usato per progredire è del tutto irrazionale o causale, come la soffiata dello strambo informatore o l'incontro con il pittore folle interpretato da Mario Adorf. Senza contare come l'indizio dato dall'uccello del titolo, il finto hornitus nevalis, porta ad una falsa pista. La risoluzione avviene per puro caso e senza che Dalmas possa controllare davvero il rincorrersi degli eventi nella sequenza finale.
Con Argento, in sostanza, il thriller perde la sua linearità per frammentarsi in una serie infinita di dettagli essenziali, che spezzano la narrazione in flashback fulminei. La visione diviene protagonista assoluta e centro focale della narrazione. Visione che si discosta da ogni forma di realismo grazie ai contributi della fotografia e nella musica, essenziali nella messa in scena, che si avvicina ad un piano onirico, inconscio, ossia là dove la percezione e la memoria si mischiano per creare un visione effettiva. Mentre i tratti distintivi del "giallo" sono decuplicati: la violenza è efferata e l'erotismo ancora più marcato. Il meccanismo del colpo di scena, dato non solo dall'identità dell'assassino, con Argento assurge a vero elemento di tensione, non configurandosi più come semplice viatico per continuare la storia.
Ancora più essenziale è l'uso modernissimo del montaggio, adoperato non solo per dare vita alle reminiscenze del protagonista, ma anche e sopratutto come strumento narrativo per aumentare il ritmo delle singole sequenze, nel quale le eleganti e ricercatissime inquadrature vengono giustapposte per in modo frenetico, talvolta quasi subliminale.
Argento crea un nuovo stile, un nuovo modo di concepire il thriller lontano anni luce sia dalla tradizione baviana che da quella americana. La storia, qui, cede il passo allo stile, vero elemento essenziale della narrazione ed elemento connotante dell'intera pellicola. E a sua volta viene riarrangiata, rimescolata con elementi sino a prima estranei e che da qui diventeranno tratti distintivi del filone "giallo", così come del thriller in genere.
Senza contare come la costruzione della tensione, questa si canonica e mai davvero sperimentale, sia a dir poco eccellente, nonostante la scarsa esperienza dell'autore. Davvero da antologia la scena dell'aggressione ai danni di Giulia, la ragazza di Dalmas, nella quale la paura di un assassino inarrestabile viene contagiata da reminiscenze gotiche (il buio) e nuovi feticci autoriali (l'occhio dell'assassino che osserva la vittima).
Un esordio col botto, quello di Argento, che si impone subito come un cineasta moderno e sperimentatore, eclissando purtroppo la figura di Bava, ma riuscendo al contempo a raccoglierne perfettamente lo scettro come cantore del thriller in Italia. Il successo è immediato ed il genere conosce così un nuovo, fiorente e seminale periodo di splendore.
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