mercoledì 15 maggio 2024

Interceptor- Il Guerriero della Strada

Mad Max 2

di George Miller.

con: Mel Gibson, Bruce Spence, Vernon Wells, Emil Minty, Michael Preston, Kjell Nilsson, Virginia Hey, William Zappa, Arkie Whitley.

Azione/Fantastico

Australia 1981















All'indomani dello straordinario successo di "Mad Max", George Miller e Byron Kennedy si ritrovano in una posizione un po' scomoda: hanno dimostrato il loro talento e la vendibilità del loro film e proprio per questo devono farne un seguito. Ma come mai sarebbe potuta proseguire la storia di un personaggio che si concludeva del tutto nell'ultima inquadratura?
La posta in gioco è forse ancora più alta che in passato, ossia dimostrare la capacità di dirigere qualcosa su commissione, di poter creare un prodotto da vendere, ma che al contempo non sia un mero giocattolo con il quale bissare il successo passato. Miller opta quindi per la più intelligente delle soluzioni, ossia usare il budget più consistente per riplasmare l'idea all'origine del primo film.
La ristrettezza di mezzi aveva infatti reso necessario svilupparlo in una scala tutto sommato piccola e a farne le spese era stato soprattutto il setting, fin troppo ordinario per un film ambientato in un futuro ai limiti dell'apocalisse. "Mad Max 2", d'altro canto, è forte di un budget di circa due milioni di dollari australiani dell'epoca, un capitale immenso per una produzione autoctona, il che gli permette di creare un mondo apocalittico perfettamente credibile.
Uscito nei cinema a partire dal dicembre 1981 (in Italia arriverà a partire dall'agosto 1982, riscuotendo ottimi incassi nonostante la magra estiva), questo sequel supera in tutto e per tutto l'originale e finisce per diventare un manifesto di estetica post-apocalittica pop che ancora oggi conta innumerevoli epigoni e debitori di ispirazione.



"Mad Max 2" ovviamente non è stato il primo ad immaginare la società futura come una gigantesca "wasteland", tantomeno il primo a portare avanti l'idea che con la fine della civilizzazione, la barbarie si sarebbe manifestata in primis come una forma di pazzia che avrebbe divorato bene o male tutti gli individui. A questo ci aveva pensato qualche anno prima il bel "Apocalypse 2024", dal quale Miller riprende anche l'idea di un mondo devastato ridotto ad un gigantesco deserto abitato da predoni e sconvolto da lotte tribali. Le differenze con il piccolo cult di L.Q. Jones e Harlan Ellison sono però diverse e consentono all'opera di Miller di aveva una sua forte identità. E in fondo, quello di questo sequel non è che la naturale evoluzione del mondo visto nel primo film, con le Terre Selvagge che si sono estese anche oltre Anarchie Road per invadere tutto il globo.
La crisi energetica è diventata perenne, la società è collassata. La situazione è degenerata a caus dello scontro tra due potenze belliche che si potrebbe pensare siano Usa e Urss, ma che dai documenti di produzione del film si scopre essere Iran e Arabia Saudita che, partendo dalla reale crisi politica del 1979, si sono distrutte a vicenda innescando una reazione a catena che a portano ad una devastazione in tutto il creato. Max continua a correre a bordo della fida V8 Interceptor, ma senza meta alcuna, cercando di sopravvivere in un mondo ostile, perennemente alla ricerca di benzina, ora il bene il più prezioso esistente.




Nella wasteland esiste solo la violenza, solo la legge del più forte. Le ultime vestigia della società si sono sgretolate e i sopravvissuti si sono radunati in sparute tribù in lotta tra loro. L'estetica che Miller inventa (differenziandosi dai suoi predecessori) è originale è accattivante: i selvaggi sono dei punk bardati con abiti di pelle borchiati e protezioni sportive trasformate in armature, mentre gli ultimi civilizzati sono agghindati con tute di un bianco immacolato e con turbanti, visto il loro ruolo di estrattori di petrolio. Tra le intuizioni estetiche che più di tutte si sono impresse nella cultura popolare ci sono ovviamente la tuta di Max, con quello spallaccio singolo e la manica tagliata, ma anche il look di Lord Humungus, con quella maschera da hockey usata per coprire un volto deforme che ha avuto fortuna imperitura nel cinema horror.
Come il mondo di "Apocalypse 2024", anche quello di "Mad Max 2" è il rottame della società odierna, dove gli oggetti comuni sono stati riconvertiti in utensili offensivi; ma a differenza del primo, il film di Miller opta per un'estetica più radicale, per questo decisamente più memorabile. Il debito di ispirazione con il cult del 1974 è poi esplicitato dal compagno canino di Max, che pare Ellison abbia stranamente gradito.




In questo nuovo mondo, Max è un personaggio diverso, quasi agli antipodi di quello che era diventato alla fine del primo film. Leggenda vuole che durante il tour promozionale del suo esordio, Miller abbia incontrato Spielberg e Lucas, i quali si sono complimentati con lui. Stupito, ha chiesto loro cosa trovassero di bello in un film del genere, al che pare che Lucas gli abbia spiegato le similitudini tra la discesa nella pazzia di Max e il cammino dell'eroe di Campbell. Miller ha così deciso di creare una sorta di arco narrativo per la sua creatura, che inizia e in parte si conclude in questo capitolo.
Max è all'inizio in tutto e per tutto un personaggio da spaghetti western, un pistolero senza nome e senza meta che vaga in una terra senza legge alla ricerca dei mezzi per sostenersi. Il parallelo con l'eroe leoniano è reso ancora più evidente nella sceneggiatura originale, dove, dopo il primo inseguimento con Wez, Max tirava in aria un cartello stradale e proseguiva il suo vagabondaggio nella direzione casuale che questo indicava, in una citazione della scena d'apertura di quel "Yojimbo" che altro non era se non il calco di "Per un Pugno di Dollari" (scena poi eliminata in fase di riprese).




Max non è un eroe, non cerca di riportare l'ordine o di raddrizzare i torti. Non è, in tal senso, neanche un antieroe convenzionale, visto che non ha dei veri e propri valori da perseguire a suo modo. E' semplicemente un sopravvissuto che vive alla giornata, difendendosi dagli attacchi di personaggi che potrebbero essere come lui se fossero dei solitari. Tanto che l'incontro con lo strambo capitan Gyro (interpretato dal fortunato caratterista Bruce Spence) è del tutto casuale e la loro alleanza puramente opportunistica, così come lo è la decisione di difendere la tribù di estrattori.
Situazione che cambia nel terzo atto, dove questo sopravvissuto menefreghista, spogliato di tutto quello che aveva, decide volontariamente di guidare la fuga verso la salvezza degli alleati di convenienza, di divenire l'ago della bilancia nello scontro tribale. Alla fine, Max diventa un eroe, anche se in senso lato, un uomo che ha deciso volontariamente di sacrificarsi per il bene altrui senza avere nulla in cambio. Il suo atto diventa così un mito, la leggenda di una nuova era, tanto che tutto il film è narrato attraverso il ricordo del Feral Kid, il bimbo selvaggio che vede in Max una figura paterna. Ed è proprio tale rapporto che permette all'eroe di trovare per la prima volta una forma di ideale, in quello sguardo idolatrante del surrogato di un figlio che ha perso, che ora non vorrebbe, ma che non riesce a non proteggere.




La storia è come da copione ridotta all'osso, ma è qui che Miller inizia davvero ad utilizzare una narrazione secca, fatta principlamente di immagini. L'influenza del tanto amato cinema muto si riscontra nell'uso scarno dei dialoghi, davvero pochi e adoperati solo quando strettamente necessario. A parlare sono le immagini e la musica altisonante di Brian May, le quali illustrano da sole eventi e personaggi; i quali sono più profondi di quanto uno sguardo superficiale possa far percepire. Basti vedere i rapporti tra gli Humungus, le bestie fin troppo umane nel relazionarsi tra loro: la furia di Wez è dovuta all'uccisione dell'amato (anche se Vernon Wells ha più volte sottolineato come, lasciato libero di creare un background al suo personaggio dal regista, abbia deciso di vedere nella loro relazione quella di un padre surrogato e di un figlio acquisito, in un parallelo forzato, ma interessante con quello del personaggio di Max), mentre il rispetto che Lord Humungus ha per la sua "bestia prediletta" è tutta nel modo in cui cerca di calmarlo per evitare che si autodistrugga.
Quella di Miller è così una storia certamente essenziale, ma mai banale, ovviamente messa del tutto al servizio dell'azione. La quale è tutt'oggi qualcosa di incredibile.




Il budget più alto gli permette di muovere più veicoli in sequenze adrenaliniche, tutte tirate su con un gusto per la coreografia esemplare. La sua mano è fermissima e il suo occhio riesce sempre a catturare al meglio le singole azioni, persino quelle più complesse, come nel famoso inseguimento finale. Il quale, per forza di cose, è l'apice di tutto il film e forse della sua intera filmografia.
Rilettura fantastica del classico assalto al treno di tanto cinema western, l'assalto alla cisterna  è il coronamento di circa 90 minuti di adrenalina che in quest'ultima parte accelera fino ad impennarsi, una vera e propria lezione di cinema compressa in un'unica sequenza. La cadenza del montaggio è perfetta, ogni inquadratura si incastra a dovere (persino quelle dove la luce cambia, errore dovuto al poco tempo a disposizione per girare, cosa ovvia in un film dal budget comunque non esorbitante). Inseguimento che Miller segmenta in piccole scene dotate della giusta carica drammatica, soluzione che gli permette di rallentare e aumentare il ritmo a cadenza regolare senza infiacchire la durata generale; il climax lo si raggiunge nella scena nel quale il Feral Kid deve recuperare la cartuccia, apice risolutivo che prelude ad un colpo di scena ovvio solo a posteriori (benché anticipato da un piccolo errore di continuità qualche minuto prima).




Ancora oggi, la perizia stilistico-estetica che Miller sfoggia in "Mad Max 2" ha ben pochi eguali e l'intero film non ha perso davvero nulla della sua carica spettacolare e del suo fascino selvaggio. Il suo lascito è ancora forte, con quell'immaginario post-apocalittico ripreso quasi ovunque. Senza contare come, assieme al coevo "1997: Fuga da New York", già all'epoca avesse creato un vero e proprio genere exploitation, ennesima prova della sua importanza.

lunedì 13 maggio 2024

Priscilla

di Sofia Coppola.

con: Cailee Spaeny, Jacob Elordi, Ari Cohen, Dagmara Dominczyk, Tim Post, Lynne Griffin, Dan Beirne, Rodrigo Fernandez-Stoll.

Biografico

Usa, Italia 2023
















La fascinazione femminista che la Coppola sembra subire da qualche anno a qeusta parte si era concretizzata nel brutto "L'Inganno" già nel 2017; tonfo al quale era seguito l'evanescente "On the Rocks", di carattere prettamente più personale e lontano in parte dalle influenze politiche. 
Con "Priscilla", la figlia d'arte prova una carta in parte inedita, ossia un biopic che le permetta di ritrarre la figura di una donna vittima di una figura maschile che la sfrutta e la schiaccia, in un paradigma femminista di fin troppo facile costruzione, cosa che aveva già in parte fatto con "Marie Antoniette", ancora oggi uno dei suoi pochi film davvero riusciti. Il risultato è un'opera tutto sommato convincente, ma del tutto priva di nerbo.




La storia di Priscilla Beaulieu (Cailee Saeny) e Elvis (Jacob Elordi) viene riportata con dovizia di particolari, rifacendosi direttamente alla sua autobiografia. La Coppola la rilegge, appunto, come il dramma di una donna-bambina follemente innamorata di un uomo più grande, al quale dedica tutta se stessa ricevendo poco o nulla in cambio.
Il dramma di Priscilla è quello di una ragazza divenuta orpello, un essere umano usato come appiglio di speranza da un uomo afflitto dal lutto. La relazione tra i due, come da sempre sostenuto dalla vera Priscilla Presley, inizia in modo platonico: Elvis aveva bisogno non di una donna, quanto di una persona che fosse in grado di ascoltarlo, di dargli supporto a seguito della morte dell'amata madre.




La Coppola dipinge tale rapporto appunto come platonico, ma sottolinea come l'assenza di una relazione fisica abbia finito per compromettere l'affettività della ragazza. Il che talvolta finisce per far scadere il film nel cattivo gusto, visto che si tratta pur sempre della relazione tra una diciasettenne e un uomo di molto più grande, il quale vuole semplicemente attendere il raggiungimento della sua maggiore età prima di possederla fisicamente. 
Laddove la Coppola riesce perfettamente nel far trasparire il dramma della sua protagonista è nel suo ruolo di reclusa in un castello dorato, quella Graceland ove nulla le manca, tranne gli elementi essenziali per una vita vera, ossia i rapporti umani.




Graceland diventa una prigione asfissiante, perennemente ritratta in giusto un pugno di inquadrature in modo da incrementare la sensazione di claustrofobia. Il carceriere è lo stesso Elvis, che usa la donna amata come puro sfogo. Un appiglio, sicuramente, ma anche un oggetto da possedere e da plasmare a suo piacimento, modificandone l'aspetto fisico e quello caratteriale anche tramite l'uso delle pillole del quale lui stesso è schiavo.
Priscilla diventa così la succube di un uomo sensibile, ma privo di tatto nei suoi confronti, debole, ma pronto alla facile ira, del tutto incapace di comprenderne o persino percepirne gli effettivi bisogni. L'Elvis di "Priscilla" è tanto carnefice quanto vittima, schiacciato dal successo, compromesso dalle necessità dello showbusiness e di riflesso schiavo di quel colonnello Parker che pur non apparendo mai su schermo riesce lo stesso a gettare la sua ombra sinistra sulla storia.  
Una lettura credibile e veritiera, che riesce anche grazie all'impegno del cast, ma che trova un limite assoluto nell'incapacità della Coppola di tirare su una narrazione coinvolgente.




"Priscilla" è un film fin troppo freddo e compiaciuto della sua stessa freddezza, chiuso in inquadrature talvolta inutilmente statiche, ammantato in una fotografia dai colori fin troppo freddi persino in quella prima parte dove invece la storia d'amore tra la giovanissima figlia di un capitano di stanza in Germania e un sex symbol follemente innamorato avrebbe meritato un'estetica decisamente più gradevole. Tutto è freddo, dai dialoghi alle performance, dal montaggio volutamente fiacco alla fotografia dalle luci fin troppo naturalistiche. Scelta estetica del tutto coerente con il racconto di una donna chiusa in un rapporto privo di vera passione, ma che finisce per compromettere la possibilità dello spettatore di essere davvero schiacciato dall'atmosfera opprimente che la protagonista dovrebbe vivere, venendo invece schiacciato da un senso di gelo e talvolta di noia. 
La Coppola predilige uno stile vacuo, un ritmo flemmatico, una narrazione (in generale) del tutto inerte e per questo del tutto inerme, quella propria di praticamente tutto il suo cinema. Un cinema convinto che la sottrazione assoluta sia sinonimo di maturità, da sempre adagiato sulle coordinate di un'essenzialità che arriva a sfiorare il ridicolo, come in questo caso, dove l'assenza di controcampi in molte scene inificia persino il lavoro degli attori. 




Questo suo exploit finisce così per essere ben eseguito, ma tutto sommato insipido. Un perfetto controcampo al fin troppo sgargiante "Elvis" di Luhrmann come è stato definito? Sicuramente. Ma questo non lo rende davvero memorabile, purtroppo.

domenica 12 maggio 2024

R.I.P. Roger Corman

 

1926 - 2024


L'uomo che ha dato dignità al B-Movie, pioniere del moderno filmmaking e mentore di alcuni dei più grandi cineasti di sempre, Roger Corman ci lascia dopo una vita spesa per il cinema.
Artigiano di quello più commerciale possibile, amatore di quello più autoriale, fautore di una carriera dove non ha letteralmente "perso un centesimo producendo film", lascia al mondo non tanto una filmografia degna di nota, quanto una vera e propria era nella quale ha cambiato la faccia di Hollywood (e non) per sempre.

venerdì 10 maggio 2024

I Pugni in Tasca

di Marco Bellocchio.

con: Lou Castel, Paola Pitagora, Mariano Masé, Liliana Gerace, Per Luigi Troglio, Jeannie McNeil, Irene Agnelli.

Italia 1965



















Quando, nel 1965, spaccando letteralmente in due il decennio, "I Pugni in Tasca" vede il buio della sala, l'effetto dirompente che suscita ha ben pochi eguali. Certo, si tratta pur sempre del decennio nel quale Pasolini sciocca le platee con le sue pellicole provocatorie e nel quale, in generale, in tutta Europa non ci si tira certo indietro dinanzi a tematiche controverse, osando raccontare e mostrare (pur nei limiti del possibile) fatti e personaggi che giusto un decennio prima sarebbe stato impossibile rappresentare. Eppure, l'esordio nel lungometraggio di Marco Bellocchio è riuscito lo stesso a destabilizzare le aspettative di molta critica e del pubblico.



Il motivo è in fondo anche abbastanza semplice: "I Pugni in Tasca" è un film lontano dai canoni estetico-narrativi che si erano consolidati nella prima parte degli anni '60, i quali erano pur caratterizzati da un ricorso alla sperimentazione visivo-narrativa che aveva portato alla ridefinizione della narrazione filmica tutta.
Nell'opera del regista venticinquenne non c'è traccia dell'influenza neorealista che invece aveva caratterizzato tutto il cinema europeo (e larga parte del cinema mondiale) fino ad allora; c'è una forma di sensibilità verso la Nouvelle Vague e il Free Cinema inglese (va ricordato come Bellocchio visse per qualche anno a Londra prima di rientrare in Italia e girare i suoi primissimi lavori), ma anche l'influenza di queste correnti risulta labile, al punto che questo esordio può davvero essere considerato un'opera a sé, una forma di espressione del tutto autoctona nella quale il grande regista ha riversato tutta la sua sensibilità cinematografica.
Un esordio che nasce praticamente dal nulla, grazie alla collaborazione con il produttore Enzo Doria e pochi capitali ottenuti grazie alle piccole amicizie che Bellocchio aveva stretto ai tempi del Centro Sperimentale. Girato tutto in location a Bobbio (dove l'autore è cresciuto), unico appiglio alla tradizione cinematografia nostrana, "I Pugni in Tasca" è un atto di ribellione, anzi una forma di distruzione totale di ogni certezza che l'Italia dava per scontata, partendo dalla narrazione filmica per arrivare al cuore tematico del film, ossia la famiglia.




La volontà di portare in scena gli scheletri nell'armadio di un nucleo famigliare ha consentito già nel '65 di accomunare Bellocchio agli autori impegnati del Cinema Civile, ma il suo sguardo è al contempo più penetrante e più astratto. La famiglia qui ritratta non è, né vuole essere il prototipo della famiglia italiana dell'epoca. E' un nugolo di "anormali", di soggetti deviati sotto molteplici aspetti (non necessariamente negativi, talvolta), considerati come anormali anche da chi li circonda, dove a risaltare sono i due estremi opposti, ovverosia il protagonista Alessandro "Ale" (Lou Castel) e il primogenito Augusto (Marino Masé).
Ale è un cinico, un giovane uomo che non prova compassione per niente e per nessuno. Afflitto da forti attacchi epilettici, questi non sono che l'avvisaglia di una devianza ai limiti della pazzia. Se Bellocchio ha ammesso di avere in comune con lui una visione cinica, appunto, del mondo e dei rapporti tra persone, di certo lo guarda dall'alto in basso e lo descrive come un vero e proprio mostro con la faccia da innocente, quella di un perfetto Lou Castel. 
Mostro Ale lo è di certo; incapace com'è di avvertire il dolore e i sentimenti altrui, cova una rabbia pronta ad esplodere. I suoi "pugni in tasca" non sono quelli di un rivoluzionario pronto ad attaccare un sistema ingiusto nel quale non crede, bensì quelli di un assassino pronto a scattare per perseguire il proprio benessere.
Un benessere che coincide con una forma di tranquillità, la quale viene minata dai famigliari, ossia la madre e il fratello, entrambi afflitti da handicap: la prima è non vedente, il secondo è incapace di intendere e volere. Ale vuole distruggerli per affermarsi, in un perseguimento del benessere e della tranquillità borghese che ricorda tanto quello alla base dell'Italia fascista (tanto che il protagonista de "Il Conformista" ne è quasi una versione priva delle devianze psicopatologiche).
Di converso Augusto è l'incarnazione della normalità, di quel lato "effettivamente tranquillo" della piccola borghesia, la quale riesce a ritagliarsi un proprio spazio senza sentirsi compromesso dalle necessità altrui. Anzi, il personaggio di Augusto è il solo che riesce a far fronte alle difficoltà famigliari, nel bene e nel male, persino quando gli vengono inflitte direttamente dal volitivo fratello minore.



La famiglia, ne "I Pugni in Tasca", non è però una semplice unione di individui dove una mela marcia fa deflagrare una pace altrimenti sempiterna. Al contrario, essa è corrosa dal marcio anche senza le azioni malvage di Ale e della sua cattiveria. Il sintomo della decadenza è data dai sentimenti incestuosi che uniscono i tre punti nevralgici della storia, ossia Ale, Giulia e Augusto.
Ale prova attrazione per Giulia (una bellissima Paola Pitagora), Giulia prova una gelosia ossessiva per Augusto. L'attrazione del primo verso la seconda è di natura sessuale, come disvelato dalla morbosa sequenza nella quale manda il piccolo alunno a spiarla mentre prende il sole, chiedendogli di descrivere la scena. L'affezione malsana di Giulia verso Augusto si sostanzia invece nell'invida che prova per la relazione con Lucia (Jeannie McNeil), l'estranea che promette di allontanarlo dalla casa famigliare, infrangendo un'unione altrimenti totalizzante.
L'unione famigliare è così naturalmente corrotta, avvelenata da sentimenti impuri, lontana dal quadro che la politica della Democrazia Cristiana e di tanta propaganda conservatrice (ieri come oggi) porta avanti. La famiglia, anzi, è un vero e proprio covo di belve pronte a uccidersi a vicenda per amor proprio.



La cura di un interesse particolare diventa così la causa scatenante dei conflitti e della violenza. La famiglia non è unita, non nel senso convenzionale del termine: Ale uccide madre e fratello per affermarsi, Giulia vorrebbe distruggere l'unione di Augusto e solo quest'ultimo ha un minimo di empatia verso i consanguinei, pur essendo pronto ad abbandonarli per creare un proprio nucleo famigliare, per perseguire e coronare la propria felicità.
La famiglia, di conseguenza, non può essere unita, non può muoversi come un unico centro di interessi proprio perché ciascuno porta un interesse contrapposto agli altri, con i quali non vuole mediare. Quel vincolo affettivo che dovrebbe portare a superare gli egoismi non esiste e non solo a causa della psicopatologia di Ale, ma anche dell'egocentrismo di Giulia. Laddove Ale è sicuramente il personaggio più sgradevole, che Bellocchio caratterizza con una serie di tic, ossessioni e pura cattiveria fino a fargli rasentare il vomitevole, Giulia non è un personaggio meno negativo proprio a causa della sua "normalità", di quell'ipocrisia che la porta prima ad ignorare i segnali della violenza del fratello, poi ad accettarla, per disfarsene solo nel finale, nel quale decide di distruggere anche quella causa disgregatrice e distruttrice senza la quale la famiglia non sarebbe stata comunque compatta proprio a causa del suo attaccamento morboso verso il fratello maggiore.




Il linguaggio che Bellocchio utilizza è sincopato e spezzato, estremamente libero soprattutto nella prima parte del racconto, anche se ancora stretto nella necessità di una costruzione tutto sommato lineare degli eventi. In questo finisce inevitabilmente per ricordare in parte il primo Pasolini, tanto che fu proprio lui a dare sul film uno dei contributi critici più acuti e completi all'epoca della sua uscita.
La prima parte spiazza per il modo in cui la narrazione scompagina il piano spazio-temporale. L'episodio cardine di questo inizio è il tentativo di omicidio-suicidio che Ale perora durante il Giorno dei Morti, narrato però dopo che questo si sia effettivamente verificato, tanto che nelle prime sequenze è chiaramente visibile un calendario che segna il 3 novembre. Una perdita di quella linearità strutturale (recuperata comunque nella seconda parte del film) che coincide con la destrutturazione grammaticale di tutto il linguaggio filmico. Il racconto è concitato e sconnesso, con le singole scene che sembrano frammenti di un delirio che rispecchia la frammentazione psichica del protagonista. 



Il racconto febbrile è però controbilanciato dallo sguardo lucido con il quale Bellocchio si avvicina alla materia. Non c'è concessione umanitaria nel biasimo che fa alle mostruosità dei suoi personaggi, i quali vengono squadrati dall'alto in basso con il giusto distacco, a metà strada tra l'occhio clinico e quello di un narratore già esperto che si limita a ritrarre un gruppo di folli in preda ad un delirio distruttivo.
Bellocchio critica i suoi personaggi, critica il loro ménage famigliare, critica di riflesso anche l'istituzione famigliare in se stessa. Il suo è un occhio disincantato, conscio di come la convivenza tra individui non debba necessariamente essere fruttifera a causa dei legami di sangue. In questo, lo scontro con la tradizione civile, politica e persino cinematografica è totale e non fa sconti di alcun tipo.



Rivisto oggi, "I Pugni in Tasca" riesce ancora a spiazzare in tutto e per tutto: certamente per il suo stile anticonformista e originale, ma anche per la crudeltà della storia e la cattiveria mai compiaciuta con la quale la porta in scena. 
Un'opera magnifica, un esordio folgorante che meriterebbe certamente più attenzione da parte di chi ancora si limita a liquidarla come un semplice "esordio arthouse anni '60", quando dovrebbe essere inserita nella cinquina degli esordi più folgoranti di sempre.

lunedì 6 maggio 2024

Interceptor


Mad Max

di George Miller.

con: Mel Gibson, Steve Bisley, Hugh Keays-Byrne, Joanne Samuel, Tim Burns, Roger Ward, Lisa Aldenhoven, Robina Chaffey, Paul Johnstone, Jerry Day, Vince Gil.

Azione

Australia 1979










Quando mise in cantiere il primo "Mad Max", George Miller, coadiuvato dall'amico produttore Byron Kennedy, di certo non aspirava a creare una vera e propria saga con protagonista il poliziotto violento interpretato da un giovane Mel Gibson. Questo primo film era in tutto e per tutto un divertissement stile Ozploitation come tanti di quelli che negli anni'70 affollavano i drive-in australiani e non, un perfetto (nonché magnifico) esponente del cinema di genere aussie tanto in voga in quegli anni in patria.
Un film minuscolo e strano sotto tutti i punti di vista, bizzarro anche per la media delle produzioni di genere australiane, figlio del talento, ma anche dell'inesperienza dei suoi autori. E la storia produttiva di quello che diventerà il primo capitolo della saga, così come la storia di come Miller è giunto al suo esordio nel lungometraggio, sono entrambe strane e complesse, come nella migliore tradizione per i cult movie.




Miller inizia una duplice carriera già divenuto diciottenne. Da una parte studia alla facoltà di medicina e inizia anche a lavorare come medico del pronto soccorso; ma dall'altra, il suo interesse verso il medium filmico lo porta ad avvicinarsi al mondo del cinema, in un periodo storico nel quale il cinema australiano inizia a sbocciare.
Fino alla metà degli anni '70, infatti, non esisteva una vera realtà produttiva nel mondo del cinema australiano, che si limitava a poche produzione interne, prediligendo la distribuzione di film esteri. Ma grazie agli aiuti e sgravi fiscali statali, esplode a circa metà del decennio una filmografia nazionale che vede come (quasi) assoluto protagonista il cinema exploitation, ossia quel cinema di genere basato sull'esagerazione e sullo sfruttamento dei trend, oltre che di tematiche e generi "tabù". Il che non impedisce ovviamente anche la nascita di un forma di cinema d'autore vero e proprio, come testimoniato dagli inizi della carriera di Peter Weir, che porterà per primo fama alla cinematografia nazionale con "Picnic ad Hanging Rock" già nel 1975.
Miller, dal canto suo, è più affascinato da un cinema più sperimentale e radicale. La sua esperienza come medico lo ha portato ad assistere agli effetti degli incidenti stradali sulle sterminate strade australiane, con corpi carbonizzati, sfracellati contro l'asfalto o ridotti in poltiglia dalle lamiere di auto e camion (il rapporto quasi carnale tra il popolo australiano e le autovetture era però già alla base di un altro film di buon successo di quegli anni, ossia "The cars that ate Paris", esordio proprio di Weir). Ed è questa la prima ispirazione per "Mad Max".
La seconda è invece data dalla crisi petrolifera che nei primi anni '70 aveva colpito praticamente tutto il mondo civilizzato, ma che in Australia aveva avuto effetti più marcati. La reazione delle autorità governative porta l'autore a dubitare della loro buona fede, fino a raggiungere la conclusione secondo la quale sono del tutto disinteressati alla creazione di un sistema alternativo che possa supplire in caso di crisi energetica; la conseguenza è quella che dinanzi allo scarseggiare delle risorse energetiche, gli uomini sarebbero regrediti a barbari assetati di benzina pronti a tutto pur di non far spegnere i propri motori. I lineamenti della storia e del mondo di Max sono così pronti e vengono fatti raffinare da Miller e Kennedy allo sceneggiatore James McCausland, che vi dà una forma pressoché definitiva



Trovati i fondi necessari alle riprese senza tra l'altro richiedere gli incentivi governativi, racimolati in un budget microscopico equivalente a meno di un milione di dollari americani dell'epoca, le riprese hanno inizio e si protraggono oltre il piano di lavorazione inizialmente stabilito a causa della scarsa esperienza di Miller e dei suoi collaboratori. Sul set regnano l'improvvisazione e lo sprezzo del pericolo: in puro stile ozploitation, spesso si gira "stile guerriglia", senza autorizzazioni e bloccando le location al volo.
A riprese finite, non si può ingaggiare un montatore esperto, quindi è lo stesso Miller a montare il film, in un lavoro che lo tiene impegnato per circa un anno e lo porta ad una realizzazione spiazzante: gran parte del girato non è di suo gradimento. Ai suoi occhi, le mancanze delle singole scene e talvolta delle singole inquadrature sono atroci, figlie, di nuovo, della sua scarsa esperienza. Il lavoro di editing si fa quindi feroce e lo porta a spendere tutte le sue energie per cercare di dare forma completa al tutto.
Forse fu quando si ritrovano a guardare il film finito che Miller e Kennedy, magari assieme alla distribuzione, si rendono conto di aver creato qualcosa di diverso e in parte straniante, ossia un film d'azione con una trama semplice da revenge movie, ma caratterizzato da un tasso di cattiveria incredibile, prima ancora che da un violenza grafica quanto mai esplicita che arriva a sfociare nel cartoonesco senza però risultare meno disturbante. Un film d'azione che forse può ambire ad essere qualcosa di più di un semplice prodotto usa&getta, qualcosa di più di un prodotto di intrattenimento con pochi fronzoli e scarse prospettive; essere, magari, un ottimo sfoggio di mestiere di tutti quelli coinvolti.




L'uscita nei cinema nel 1979 conferma tale ritrovata aspirazione; le polemiche sono forti visto l'occhio di simpatetico con il quale Miller dipinge Max e la sua cattiveria, ma qualcosa scatta con il pubblico: a prescindere dalla nazionalità e dal retroterra culturale, "Mad Max" venne apprezzato in tutto il mondo e non solo a causa della sua carica spettacolare e dell'indubbio talento del suo autore per la messa in scena; apprezzamento che si rivela trionfale persino nel mercato americano (dove però fu doppiato per celare il forte accento degli attori), cosa forse davvero insperata. Tanto che, con circa 100 milioni di dollari di incasso globale, questo strano oggetto di puro e grezzo cinema d'azione made in Australia finisce per diventare uno dei film di maggior profitto mai creati, oltre che un cult amatissimo, l'apripista di una serie e della carriera del suo autore e del suo protagonista.
Oggi, 45 anni dopo, quella di Max Rockatansky è diventata giustamente una delle saghe più famose del cinema. E a rivederlo, quel primo exploit ha perso davvero poco del suo sfavillante splendore filmico.




Se nel corso degli anni la serie è divenuta l'emblema dell'estetica post-apocalittica (post-atomica, in particolare), il primo "Mad Max" è invece ambientato in un futuro relativamente civilizzato; dove quel "relativamente" fa ovviamente la differenza. Il mondo di Max, sconvolto da un'incalzante crisi energetica, è una landa semi-desolata, dove la piccola città è quasi un ultimo bastione di civiltà che sorge al limitare di una terra selvaggia ("anarchie road", come viene battezzata) dove non esistono né leggi, né morale. Un mondo ai limiti del caos totale dove criminali motorizzati sfrecciano furiosi su auto e moto truccate, contro i quali si ergono solo pochi poliziotti, vestigia di un ordine prossimo alla rovina definitiva, avvantaggiati solo dalle loro super-auto, le Interceptor (da cui il celebre titolo nostrano). Un "futuro prossimo" di certo non remoto che rende "Mad Max" in fondo non troppo dissimile da molti altri action e revenge movie del periodo, ma del tutto diverso dal resto dei suoi sequel, dove l'ambientazione si farà via via più fantastica.
Qui, al contrario, Miller crea una sorta di far-west moderno, ispirato a suo stesso dire al west visto nei film di Sergio Leone. Un west duro, sporco, cattivo fin oltre i limiti del sadismo, tanto che se lo Straniero senza Nome di Clint Eastwood spuntasse fuori nel Outback di Max non sarebbe tutto sommato fuori posto.




L' "eroe" della storia è invece un poliziotto, almeno all'inizio. Non un fuorilegge romantico, non uno sceriffo dal cuore puro e dai modi spicci, tantomeno un antieroe di quelli propri delle fonti di ispirazione. Max è, in questa sua prima incarnazione, un personaggio a suo modo originale, benché non inedito. Basti vedere il modo in cui Miller lo introduce nei primissimi minuti del film: non ne mostra il volto, solo le mani indaffarate a smanettare sul motore della sua auto. Veniamo a sapere della sua nomea di duro quando il Night Rider (capo del branco di punk motorizzati che verranno introdotti solo in un secondo momento per poi divenire subito gli antagonisti della stori) al sentirlo nominare scoppia in lacrime dalla paura. Inizialmente vediamo Max quasi solo come un'ombra all'interno di un'auto: è questo il suo vero corpo e con essa finirà per avere un rapporto simbiotico. Un'auto che diventa arma creata ad hoc per uccidere: dopo un inseguimento spettacolare, il Night Rider viene letteralmente annientato in uno scontro violentissimo. Quando Max finalmente si palesa, il colpo di scena è servito: non è un veterano brizzolato dalla mascella squadrata, né un poliziotto-mostro assetato di sangue, bensì un giovane uomo di bell'aspetto, interpretato da un futuro sex symbol all'epoca appena ventiduenne.




L'arco caratteriale di Max è presto detto, ossia la totale distruzione della sua sanità mentale e emotiva, una lenta e inesorabile discesa verso la barbarie indotta da una violenza che cerca di evitare, ma che finisce inevitabilmente per braccarlo. Max non è un eroe, non lo è alla fine del film di certo, ma non lo è in realtà neanche all'inizio. Max è semplicemente un poliziotto, un uomo che usa la violenza per cercare di mantenere l'ordine. E' proprio il ricorso necessario a questa violenza che lo logora; da questo punto di vista, la scena più riuscita del film non avviene su schermo: dal punto di vista del suo collega e amico Goose (interpretato da Steve Bisley, amico e collega di Gibson anche nella realtà) assistiamo ai postumi di un inseguimento notturno (avvenuto tra gli stacchi per ovvi motivi economici), dove gli inseguiti sono ridotti a brandelli di carne e lamiere; ma quando Goose incontra Max, lo trova devastato, ridotto a brandelli sul piano psicologico anche se non su quello fisico.
L'abbandono dell'uniforme è la via per salvarsi dalla pazzia. Questo avviene proprio a seguito di un ennesimo atto di violenza, ossia il linciaggio di Goose da parte del nuovo capobanda Toecutter (il compianto Hugh Keays-Byrne, che tornerà poi in "Fury Road" nuovamente nei panni del villain) e del pazzo Johnny the Boy, goccia che fa traboccare il vaso agli occhi di Max. Ovviamente, in un mondo in preda al caos, non c'è via d'uscita e la violenza finisce per stroncarlo definitivamente, con l'uccisione della moglie e del figlio. Ed è qui che "Mad Max", a circa venti minuti dalla fine, cambia pelle e diventa un revenge movie vero e proprio.




Max abbraccia la violenza forse perché capisce di non poterle sfuggire. Il suo ruolo non è quello di un giustiziere e, in senso lato, neanche quello di un vendicatore: dal contesto del film è chiaro che non otterrà nulla dal bagno di sangue che sta per scatenare (cosa chiara nell'ultima, splendida immagine); la sua è pura e semplice furia, una sorta di giustizia karmica con la quale ripaga quei barbari che gli hanno portato via tutto.
E' qui che Miller disvela la sua vena sadica. La violenza è brutale, non fa sconti e il fatto che sia perorata con veicoli piuttosto che con armi convenzionali rende il tutto ancora più feroce prima ancora che spettacolare. La V8 Interceptor di Max (nella realtà una versione modificata della Ford Falcon Cupé, la quale potrebbe davvero ambire al titolo di regina delle super-auto del cinema) è l'equivalente del revolver di Charles Bronson ne "Il Giustiziere della Notte", ossia lo strumento necessario per la distruzione altrui. Quando Max non è a bordo, è come nudo, tanto da cadere in un'imboscata nella quale resta ferito. Il veicolo annienta gli avversari, la ferocia data dagli scontri è tangibile in ogni fotogramma ed è dovuta alla spericolatezza della produzione: da brividi lo stunt nella quale uno dei motociclisti viene  colpito al collo dalla ruota anteriore della sua cavalcatura, così come il frontale tra  Toecutter e il camion (benché sia visibile il cartonato usato per proteggere quest'ultimo veicolo). L'esagerazione cartoonesca della violenza, data anche dall'accelerazione del girato in fase di montaggio per coprire l'effetiva bassa velocità dei veicoli, finisce paradossalmente per rendere il tutto ancora più efferato, talvolta davvero insostenibile da vedere.
Pur tuttavia, l'apice del sadismo lo si raggiunge nell'ultima scena, in quell'epilogo da antologia dove non vengono usati veicoli: ritrovato l'imbelle Johnny, il più viscido membro della banda, Max lo lega alla cisterna che ha distrutto, lasciandogli dieci minuti per segare le manette prima che esploda o, in alternativa, segarsi via la mano. L'esito della trappola avviene fuori scena, con il protagonista che si allontana tra le urla dell'antagonista. L'unica certezza è la totale distruzione della psiche del primo: il suo sguardo è vacuo, la vendetta non gli ha dato nulla, neanche la gioia di aver ucciso chi gli ha tolto tutto. Miller, di conseguenza, non condona la violenza, né la esalta, benché la ritragga nel modo più spettacolare possibile. E gli va anche fatto un plauso per aver saputo quanto mostrare e quanto lasciare fuori scena, con alcuni degli episodi più crudi (lo stupro della ragazza e l'uccisione della famiglia di Max) che avvengono categoricamente fuori scena, evitando ogni possibile inutile spettacolarizzazione.




E "Mad Max" oggi non sarebbe ricordato se non fosse proprio per la sua carica spettacolare. La "scuola australiana" degli inseguimenti trova qui il suo più illustro rappresentante: al bando la macchina da presa fissa a terra che riprende le auto principalmente dal punto di vista di un ideale passante a bordo strada, Miller fa largo uso di crane e camera a mano montata sull'auto e moto di turno. Il risultato è che lo sguardo dello spettatore si muove al pari dei veicoli, ne sfiora talvolta la carrozzeria prima della collisione e sfreccia lungo le highway dell'outback a velocità folle. Quando poi i veicoli si cappottano e deflagrano, la spericolatezza degli stunt dà i suoi frutti in immagini al fulmicotone.
L'occhio di Miller per l'inquadratura è già qui perfettamente sviluppato; in particolare, è da lodare l'uso perfetto che fa del formato panoramico: già negli inseguimenti riesce a cucire l'inquadratura sui veicoli, ma quando su schermo ci sono i corpi degli attori le immagini diventano delle fotografie in movimento, dove l'uso del paesaggio desolato rende il tutto ancora più pittorico.




Se nella cura visiva e nel tono "Mad Max" riesce a far risaltare il talento grezzo degli autori, la loro inesperienza viene inevitabilmente a galla nella costruzione della storia e del ritmo, che oggi risultano anche più altalenanti che in passato. Certo, in un film dove ciò che conta sono i personaggi e gli inseguimenti, non ci si può certo lamentare di un intreccio basilare, tutto basato su di una serie di eventi atti a tenere insieme le singole scene. A destare un po' di fastidio è semmai l'artificiosità della sceneggiatura, che costruisce l'uccisione di Goose, Jessie e Sprog con una serie di andirivieni di incontri tra questi tre personaggi e i mototeppisti, quando una forma di cruda essenzialità sarebbe stata più in linea con il tono generale del film. 
Un motivo plausibile è forse insito nella necessità di aumentare la durata sino ai canonici 90 minuti, essenziali talvolta per ottenere la distribuzione internazionale. Con la conseguenza che il ritmo passa dall'essere adrenalinico a fiacco nel giro di pochi minuti. E se Miller riesce a passare con disinvoltura dalla brutalità degli inseguimenti alla tenerezza delle scene famigliari, non è altrettanto bravo nel rallentare i giri del motore per dilatare le lunghe sequenze che a volte preludono alla violenza.




Quasi mezzo secolo dopo la sua prima uscita in sala, dopo tre seguiti e uno spin-off in arrivo, il primo "Mad Max" riesce ancora a stupire. Il suo carattere di B-Movie artigianale e l'estetica da film a basso costo lo rendono poi originale all'interno di tutta la serie, un gioiello che si riguarda sempre con piacere.