mercoledì 6 luglio 2022

Elvis

di Baz Luhrmann.

con: Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Dacre Montgomery, Luke Bracey, Richard Roxburgh, David Wenham, Natasha Bassett, Kodi Smit-McPee, Kelvin Harrison Jr., Elizabeth Cullen.

Biografico

Australia, Usa 2022












I film di Baz Luhrmann si amano o si odiano. Non c'è, forse, via di mezzo riguardo a quello stile caleidoscopicamente postmoderno e perennemente sull'orlo della caciara cialtronesca, che riesce, tuttavia e sovente, a coinvolgere e ammaliare. Ed "Elvis", in tal senso, non è diverso da altri suoi exploit quali "Moulin Rouge!" o "Romeo + Giulietta", pur non vantando l'eterogeneità stilistico-estetica del primo o la caratura drammaturgica del secondo. "Elvis" è un biopic eccessivo, compiaciuto dei suoi colori e della sua inarrestabile dinamicità, che però sa quando rallentare e quando fermarsi, pur avendo sempre un ritmo incalzante e del tutto "anti-classico". E già per questo meriterebbe di essere apprezzato.



Più che un biopic, nelle parole dello stesso autore, il suo è un film su di un supereroe, con un ragazzo di umili origini che diventa una superstar e riesce ad influenzare il mondo che lo circonda, da cui il paragone con il Capitan Marvel della Fawcett del quale il vero Elvis era realmente un grande fan. Ma pur evitando le trappole proprie di tanti biopic e distanziandosi dalla formula creata dall' "Elvis- The Movie" di Carpenter e resa stantia nel corso degli anni, quello di Luhrmann è in primis il ritratto di una figura sofferente, di un artista sfruttato in modo bieco da un manager senza scrupoli.
Elvis era il prodotto del "Colonnello" Tom Parker, un apolide, imbonitore di folle e mezzo artista della truffa che Tom Hanks carica di una forma di arcignità grottesca che lo rende simile ad un supervillain vero e proprio. Un ragazzo per bene, educato e fiero, trasformato in una macchina del merchandise, reso prigioniero da contratti truffaldini che ne hanno castrato la carriera e con un immagine creata ad arte per essere rivenduta alle folle.




Al di là del rapporto schiavistico con Parker, Luhrmann rivolge il suo sguardo verso il fenomeno di Elvis e il suo impatto sulle masse. I rapporti famigliari e amicali e persino quello con Priscilla vanno in secondo piano, relegati talvolta a piccole scene fin troppo stilizzate e ai limiti della soap opera. Vice versa, il fenomeno trova ampio spazio: Elvis il ribelle, Elvis l'anticonformista, Elvis la superstar; e poi Elvis schiavizzato nella gabbia dorata di Las Vegas, in una parabola discendente che evita il cliché del ritorno in forma finale per concludersi con un'amara nota calante.




La figura del Re questa volta ha più ombre. La tossicodipendenza non viene sottaciuta, così come la depressione, ma si tende a ricondurre questa sua oscurità al rapporto con il Colonello. Allo stesso modo, l'influenza della musica nera trova qui più spazio, ma il rapporto ambiguo con Little Richard viene furbescamente arginato in modo da non dare adito al tema dell'appropriazione culturale (senza nemmeno voler sostenere se sia davvero possibile parlare di appropriazione culturale nella musica e nell'arte in generale). Similmente, il rapporto con Nixon non trova spazio, lasciando al pubblico l'impressione che il Re del Rock sia sempre rimasto un liberal convinto.
Il ritratto che ne emerge è così semplicemente quello di un artista dotato e rivoluzionario, la cui carriera è stata distrutta da un manager privo di scrupoli che lo ha usato fino a distruggerlo. Descrizione vicina alla realtà e che bene o male ne rende bene la caratura, ma nel cui racconto mancano sequenze davvero memorabili, nonostante l'ottima performance di Austin Butler, che riesce persino a cantare alcune delle canzoni, cosa non da poco.




Il resto è una sarabanda di immagini sfavillanti e barocche che ben si attagliano al personaggio, ma che non riescono mai ad essere davvero memorabili, unico vero difetto di un biopic sentito, abbastanza preciso e tutto sommato coinvolgente.

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