di Philip Ridley.
con. Jeremy Cooper, Lindsay Duncan, Viggo Mortensen, Duncan Fraser, Sheila Moore, David Longworth, Robert Koons, David Bloom.
Drammatico
Inghilterra, Canada 1990
Essere dimenticati è forse il destino peggiore che possa accadere ad un'opera d'arte. Innumerevoli sono le pellicole che, per un motivo o nell'altro, finiscono nel dimenticatoio, obliate dalla coscienza collettiva anche da parte dei cinefili più accaniti, prima ancora di quei film che vanno perduti "fisicamente", divenendo lost media. La dimenticanza è quanto successo, purtroppo, a "Riflessi sulla Pelle", dramma onirico sull'infanzia esordio alla regia dello scrittore Philip Ridley che, nel 1990, reduce dallo script di "The Krays" per Peter Medak, ottiene un ottimo riscontro di critica anche nei circuiti dei festival e una buona visibilità, per poi essere dimenticato. Complice anche la carriera del suo autore, il quale, purtroppo, dirigerà solo altri due lungometraggi, almeno sino ad oggi, di cui l'ultimo, "Heartless", è invece dimenticabile per i peggiori motivi.
"Riflessi sulla Pelle", al contrario, è un'opera potente e della violenza trabordante, che getta una luce sinistra sull'infanzia, descritta come il periodo peggiore della vita.
In un periodo imprecisato della metà nel XX secolo, forse la fine degli anni '50, in una remota zona rurale degli States, il piccolo Seth Dove (Cooper) vive una vita agra, passando le sue giornate a compiere scherzi crudeli assieme agli amici. Il suo mondo viene idealmente distrutto, un po' alla volta, a causa di una serie di omicidi di bambini che cominciano a consumarsi nella zona e che presto porteranno alla catastrofe.
L'infanzia è davvero innocente? No, almeno per Ridley, che apre il film con una scena fortemente disturbante: Seth e i suoi due amici si divertono a gonfiare un rospo e lo fanno esplodere in faccia alla vedova Dolphin Blue (Lindsay Duncan). Già dal primo istante è chiaro come la de-formazione che attende il piccolo protagonista è già in atto, parte intrinseca della sua persona, non dovuta a traumi fisici o psichici ma del tutto connaturata alla sua età. La visione del mondo che si ha durante la prima fase della vita è, per forza di cose, parziale, afflitta dalla mancata esperienza del mondo e dalla superficialità fantastica con cui si affronta la vita. La fantasia per sé, a differenza di quanto accade in molto cinema sul e per l'infanzia, non è entità salvifica, ma una visione deformata del reale che crea in forma embrionale quei pregiudizi che, idealmente, accompagnano la persona anche nell'età adulta. Il percorso di Seth è quindi segnato dall'inizio e già nelle prime scene è la morte a farla da padrone.
Una morte che si manifesta sotto la forma delle mosche che infestano la casa, ma soprattutto nella mancanza: la morte del padre, che arriva all'improvviso, e soprattutto il lutto vedovile che affligge Dolphin e che la rende una vera e propria "morta vivente", un cadavere che si trascina nella vita oramai svuotata di ogni forza. E che viene percepita dal bambino come una minaccia, una "vampira" che si ciba della vita altrui.
La morte è poi entità fisica, che porta via con sé, un po' alla volta, gli amici, stroncati da un assassino invisibile, il quale rivolta le vite della piccola comunità risvegliando sopiti rancori. Un'accusa di omosessualità porta il padre di Seth al suicidio, causando il ritorno a casa del fratello maggiore Cameron (un giovane Viggo Mortensen, le cui doti di attore sono già qui evidenti).
La seconda parte è un'allucinazione perenne nella quale il giovane protagonista si confronta con la mancanza di affetto, ricercata nel fratello, vera figura paterna, piuttosto che nella madre, mai davvero vista come ancora familiare. L'invidia per la relazione con Dolphin lo porta ad esacerbare il suo odio verso la donna, mentre la scoperta di un feto calcificato ne esaspera la fantasia.
La morte è qui forza distruttrice che corrode la mente di Seth così come il corpo di Cameron. La "pelle che riflette la luce" è quella dei morti, del cadavere semi-mummificato del feto così come del bambino esposto alle radiazioni nella foto di Cameron, oltre che quella dello stesso Cameron, vittima dei test nucleari nel Pacifico.
Un disfacimento lento e inesorabile al quale l'unico rimedio è l'amore. E se per Cameron e Dolphin l'amore reciproco è il balsamo che permetterebbe loro di fuggire dallo stato delle cose, non può esserci salvezza per Seth, la cui giovane età preclude ogni forma di redenzione.
Redenzione che non avviene mai. Il finale, disperato, è il trionfo dell'inferno personale sui personaggi, tutti condannati ad una dannazione ineluttabile. L'urlo disperato è la sola reazione possibile ad una condanna inevitabile.
Di concerto con il direttore della fotografia Dick Pope, Ridley ritrae un inferno in Terra dai colori caldi, naturali, i colori dell'entroterra nordamericano solitamente associati a visioni positive. Il suo stile è pittorico e perfettamente calibrato e crea immagini potenti e ammalianti, splendidamente contrapposte ad una storia macabra e disperata. Una bellezza che riporta alla mente, per forza di cose, quanto fatto da Malick ne "I Giorni del Cielo", ma che trova una propria, perfetta, connotazione estetica che le concede una forma di identità.
Bisogna quindi riscoprire questo dramma incredibilmente forte e intenso, una pellicola non facile e sicuramente destabilizzante, ma la cui terribile bellezza è innegabile.
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