con: Lou Castel, Paola Pitagora, Mariano Masé, Liliana Gerace, Per Luigi Troglio, Jeannie McNeil, Irene Agnelli.
Italia 1965
Quando, nel 1965, spaccando letteralmente in due il decennio, "I Pugni in Tasca" vede il buio della sala, l'effetto dirompente che suscita ha ben pochi eguali. Certo, si tratta pur sempre del decennio nel quale Pasolini sciocca le platee con le sue pellicole provocatorie e nel quale, in generale, in tutta Europa non ci si tira certo indietro dinanzi a tematiche controverse, osando raccontare e mostrare (pur nei limiti del possibile) fatti e personaggi che giusto un decennio prima sarebbe stato impossibile rappresentare. Eppure, l'esordio nel lungometraggio di Marco Bellocchio è riuscito lo stesso a destabilizzare le aspettative di molta critica e del pubblico.
Il motivo è in fondo anche abbastanza semplice: "I Pugni in Tasca" è un film lontano dai canoni estetico-narrativi che si erano consolidati nella prima parte degli anni '60, i quali erano pur caratterizzati da un ricorso alla sperimentazione visivo-narrativa che aveva portato alla ridefinizione della narrazione filmica tutta.
Nell'opera del regista venticinquenne non c'è traccia dell'influenza neorealista che invece aveva caratterizzato tutto il cinema europeo (e larga parte del cinema mondiale) fino ad allora; c'è una forma di sensibilità verso la Nouvelle Vague e il Free Cinema inglese (va ricordato come Bellocchio visse per qualche anno a Londra prima di rientrare in Italia e girare i suoi primissimi lavori), ma anche l'influenza di queste correnti risulta labile, al punto che questo esordio può davvero essere considerato un'opera a sé, una forma di espressione del tutto autoctona nella quale il grande regista ha riversato tutta la sua sensibilità cinematografica.
Un esordio che nasce praticamente dal nulla, grazie alla collaborazione con il produttore Enzo Doria e pochi capitali ottenuti grazie alle piccole amicizie che Bellocchio aveva stretto ai tempi del Centro Sperimentale. Girato tutto in location a Bobbio (dove l'autore è cresciuto), unico appiglio alla tradizione cinematografia nostrana, "I Pugni in Tasca" è un atto di ribellione, anzi una forma di distruzione totale di ogni certezza che l'Italia dava per scontata, partendo dalla narrazione filmica per arrivare al cuore tematico del film, ossia la famiglia.
La volontà di portare in scena gli scheletri nell'armadio di un nucleo famigliare ha consentito già nel '65 di accomunare Bellocchio agli autori impegnati del Cinema Civile, ma il suo sguardo è al contempo più penetrante e più astratto. La famiglia qui ritratta non è, né vuole essere il prototipo della famiglia italiana dell'epoca. E' un nugolo di "anormali", di soggetti deviati sotto molteplici aspetti (non necessariamente negativi, talvolta), considerati come anormali anche da chi li circonda, dove a risaltare sono i due estremi opposti, ovverosia il protagonista Alessandro "Ale" (Lou Castel) e il primogenito Augusto (Marino Masé).
Ale è un cinico, un giovane uomo che non prova compassione per niente e per nessuno. Afflitto da forti attacchi epilettici, questi non sono che l'avvisaglia di una devianza ai limiti della pazzia. Se Bellocchio ha ammesso di avere in comune con lui una visione cinica, appunto, del mondo e dei rapporti tra persone, di certo lo guarda dall'alto in basso e lo descrive come un vero e proprio mostro con la faccia da innocente, quella di un perfetto Lou Castel.
Mostro Ale lo è di certo; incapace com'è di avvertire il dolore e i sentimenti altrui, cova una rabbia pronta ad esplodere. I suoi "pugni in tasca" non sono quelli di un rivoluzionario pronto ad attaccare un sistema ingiusto nel quale non crede, bensì quelli di un assassino pronto a scattare per perseguire il proprio benessere.
Un benessere che coincide con una forma di tranquillità, la quale viene minata dai famigliari, ossia la madre e il fratello, entrambi afflitti da handicap: la prima è non vedente, il secondo è incapace di intendere e volere. Ale vuole distruggerli per affermarsi, in un perseguimento del benessere e della tranquillità borghese che ricorda tanto quello alla base dell'Italia fascista (tanto che il protagonista de "Il Conformista" ne è quasi una versione priva delle devianze psicopatologiche).
Di converso Augusto è l'incarnazione della normalità, di quel lato "effettivamente tranquillo" della piccola borghesia, la quale riesce a ritagliarsi un proprio spazio senza sentirsi compromesso dalle necessità altrui. Anzi, il personaggio di Augusto è il solo che riesce a far fronte alle difficoltà famigliari, nel bene e nel male, persino quando gli vengono inflitte direttamente dal volitivo fratello minore.
La famiglia, ne "I Pugni in Tasca", non è però una semplice unione di individui dove una mela marcia fa deflagrare una pace altrimenti sempiterna. Al contrario, essa è corrosa dal marcio anche senza le azioni malvage di Ale e della sua cattiveria. Il sintomo della decadenza è data dai sentimenti incestuosi che uniscono i tre punti nevralgici della storia, ossia Ale, Giulia e Augusto.
Ale prova attrazione per Giulia (una bellissima Paola Pitagora), Giulia prova una gelosia ossessiva per Augusto. L'attrazione del primo verso la seconda è di natura sessuale, come disvelato dalla morbosa sequenza nella quale manda il piccolo alunno a spiarla mentre prende il sole, chiedendogli di descrivere la scena. L'affezione malsana di Giulia verso Augusto si sostanzia invece nell'invida che prova per la relazione con Lucia (Jeannie McNeil), l'estranea che promette di allontanarlo dalla casa famigliare, infrangendo un'unione altrimenti totalizzante.
L'unione famigliare è così naturalmente corrotta, avvelenata da sentimenti impuri, lontana dal quadro che la politica della Democrazia Cristiana e di tanta propaganda conservatrice (ieri come oggi) porta avanti. La famiglia, anzi, è un vero e proprio covo di belve pronte a uccidersi a vicenda per amor proprio.
La cura di un interesse particolare diventa così la causa scatenante dei conflitti e della violenza. La famiglia non è unita, non nel senso convenzionale del termine: Ale uccide madre e fratello per affermarsi, Giulia vorrebbe distruggere l'unione di Augusto e solo quest'ultimo ha un minimo di empatia verso i consanguinei, pur essendo pronto ad abbandonarli per creare un proprio nucleo famigliare, per perseguire e coronare la propria felicità.
La famiglia, di conseguenza, non può essere unita, non può muoversi come un unico centro di interessi proprio perché ciascuno porta un interesse contrapposto agli altri, con i quali non vuole mediare. Quel vincolo affettivo che dovrebbe portare a superare gli egoismi non esiste e non solo a causa della psicopatologia di Ale, ma anche dell'egocentrismo di Giulia. Laddove Ale è sicuramente il personaggio più sgradevole, che Bellocchio caratterizza con una serie di tic, ossessioni e pura cattiveria fino a fargli rasentare il vomitevole, Giulia non è un personaggio meno negativo proprio a causa della sua "normalità", di quell'ipocrisia che la porta prima ad ignorare i segnali della violenza del fratello, poi ad accettarla, per disfarsene solo nel finale, nel quale decide di distruggere anche quella causa disgregatrice e distruttrice senza la quale la famiglia non sarebbe stata comunque compatta proprio a causa del suo attaccamento morboso verso il fratello maggiore.
Il linguaggio che Bellocchio utilizza è sincopato e spezzato, estremamente libero soprattutto nella prima parte del racconto, anche se ancora stretto nella necessità di una costruzione tutto sommato lineare degli eventi. In questo finisce inevitabilmente per ricordare in parte il primo Pasolini, tanto che fu proprio lui a dare sul film uno dei contributi critici più acuti e completi all'epoca della sua uscita.
La prima parte spiazza per il modo in cui la narrazione scompagina il piano spazio-temporale. L'episodio cardine di questo inizio è il tentativo di omicidio-suicidio che Ale perora durante il Giorno dei Morti, narrato però dopo che questo si sia effettivamente verificato, tanto che nelle prime sequenze è chiaramente visibile un calendario che segna il 3 novembre. Una perdita di quella linearità strutturale (recuperata comunque nella seconda parte del film) che coincide con la destrutturazione grammaticale di tutto il linguaggio filmico. Il racconto è concitato e sconnesso, con le singole scene che sembrano frammenti di un delirio che rispecchia la frammentazione psichica del protagonista.
Il racconto febbrile è però controbilanciato dallo sguardo lucido con il quale Bellocchio si avvicina alla materia. Non c'è concessione umanitaria nel biasimo che fa alle mostruosità dei suoi personaggi, i quali vengono squadrati dall'alto in basso con il giusto distacco, a metà strada tra l'occhio clinico e quello di un narratore già esperto che si limita a ritrarre un gruppo di folli in preda ad un delirio distruttivo.
Bellocchio critica i suoi personaggi, critica il loro ménage famigliare, critica di riflesso anche l'istituzione famigliare in se stessa. Il suo è un occhio disincantato, conscio di come la convivenza tra individui non debba necessariamente essere fruttifera a causa dei legami di sangue. In questo, lo scontro con la tradizione civile, politica e persino cinematografica è totale e non fa sconti di alcun tipo.
Rivisto oggi, "I Pugni in Tasca" riesce ancora a spiazzare in tutto e per tutto: certamente per il suo stile anticonformista e originale, ma anche per la crudeltà della storia e la cattiveria mai compiaciuta con la quale la porta in scena.
Un'opera magnifica, un esordio folgorante che meriterebbe certamente più attenzione da parte di chi ancora si limita a liquidarla come un semplice "esordio arthouse anni '60", quando dovrebbe essere inserita nella cinquina degli esordi più folgoranti di sempre.
Bella questa tua analisi molto approfondita! Dovrei guardare qualcosa di Bellocchio, non ho visto niente, temo...
RispondiEliminaTi ringrazio.
EliminaTi consiglio di partire da qui e recuperare almeno i film più importanti, come "Nel nome del padre", "Sbatti il mostro in prima pagina" e "Buongiorno, notte".