con: Terence Stamp. Silvana Mangano, Massimo Girotti, Laura Betti, Anne Wiazemsky, Andrès Josè Cruz Soublette, Ninetto Davoli.
Italia (1968)
1968, ossia la Rivoluzione; inseguita per le strade, urlata a squarciagola, sbattuta in faccia a tutto e a tutti; nel '68 il mondo si spaccò idealmente in due classi: i rivoluzionari e i reazionari, ossia proletari e borghesi; ma Pier Paolo Pasolini rivoluzionario lo era davvero, e sopratutto era un anticonformista il cui sguardo acuto e disincantato gli permetteva di andare al di là dei nomi e degli slogan per vedere la realtà dei fatti; i rivoluzionari altri non erano che i figli viziati ed agitati della borghesia, che propagandavano ideali che non comprendevano solo per sfogare i loro istinti; celeberrime le sue accuse lanciate ai sessantottini "con la faccia da stronzetti" e la difesa ad oltranza dei poliziotti sule barricate, i figli dei proletari, ossia i veri oppressi, dipinti come aguzzini sadici dagli avversari solo per codardia. Ma l'accusa più grande alla classe borghese Pasolini la rivolge tramite "Teorema", il suo film più famoso e celebrato; basato su di un suo libro omonimo, "Teorema" rappresenta la prosecuzione della nuova riflessione pasoliniana, iniziata l'anno prima con "Edipo Re" e che continuerà negli anni immediatamente successivi creando il cosiddetto "Ciclo del Mito". "Teorema" rappresenta anche la prima opera del grande autore foriera di " veri scandali" e ostracizzata violentemente sia dalla destra conservatrice, infuriata per la rappresentazione esplicita del sesso, che dalla sinistra, sdegnata dal profondo misticismo propagandato.
Milano; una troupe giornalistica si reca all'entrata di una fabbrica dove è accaduto un caso curioso: il padrone ha regalato l'azienda ai suoi operai; l'intervistatore incalza i nuovi padroni con una serie di domande sulle conseguenze dell'accaduto, in particolare su come un atto simile si concili con le istanze rivoluzionarie della classe proletaria; con un lungo flashback, si ricostruisce la storia del padrone e di come abbia maturato la decisione. Una comune famiglia dell'alta borghesia vede la propria vita sovvertita dall'arrivo di uno strano visitatore (Terence Stamp), il quale porrà ciascun membro della stessa dinanzi alla propria natura, infrangendone le false certezze.
La famiglia borghese è lo specchio delle illusioni di un'intera società; illusioni concernenti la certezza della propria coscienza, del proprio Io inteso sia dal punto di vista privato che immesso all'interno del sistema sociale; il contatto un un estraneo, un elemento di disturbo che fa nascere nuove sensazioni all'interno di un ordine precostituito e (falsamente) stabile, porta alla totale deflagrazione di ogni certezza; ogni personaggio deve così affrontare la perdita della propria identità e la conseguente scoperta della propria vera natura; e il meccanismo di distruzione e ricostruzione viene innescato, dal visitatore, mediante un atto all'epoca sconcertante da rappresentare: la pulsione sessuale, la scoperta del corpo e del sesso sia etero che omo; il corpo diviene così il fulcro all'interno di un universo fatto di sole apparenze, di inganni, di menzogne auto ed etero imposte che, in quanto tali, non possono che essere svelate dalla carnalità, ultimo bastione della fisicità oggettiva e, dunque, della verità.
Pasolini segue, con un montaggio alternato volutamente sfasato e frammentario, il percorso intrapreso da ogni singolo soggetto; il personaggio più complesso, nell'economia del racconto, non è però un membro della famiglia, bensì la domestica (Laura Betti), ossia un proletario che è entrato nell'orbita della classe superiore senza mai integrandovisi; a differenza dei suoi padroni, la domestica ha un punto fermo nella sua esistenza dato dalla fede; un "contenuto" che illumina la sua esistenza e che l'amore per il Visitatore non fa che rafforzare; una volta staccatosi da egli, la donna ritorna al sua paese natale e continua sulla via della Fede al punto di divenire una santa: compie miracoli e alla fine si vota al martirio per il prossimo in una catarsi in cui Pasolini sembra voler citare il capolavoro di Bergman "La Fontana della Vergine" (1960).
Ma se quella del "povero di spirito" è una parabola costruttiva, benchè amara, quella dei ricchi diviene un vera e propria discesa agli inferi; il confronto con il Visitatore ne rivela il vuoto esistenziale, il deserto interiore che Pasolini rievoca in immagini spettacolari e tetre; deserto che, una volta venuto meno l'appiglio del ragazzo, finirà per inghiottirli. La prima ad essere distrutta è la figlia (Anne Wiesmasky, volto ricorrente nel cinema d'autore europeo della fine degli anni '60): ragazza introversa ed acerba sia nel fisico che nella mente, venera il padre come una vera e propria icona; non conosce gli uomini, evita il contatto fisico ed intellettuale con loro per dedicarsi totalmente al culto familiare, ossia all'idolatria pagana di sé stessi; il Visitatore risveglia in lei l'attrazione erotica e la fa giungere alla maturità sessuale, svelandole la sua natura di donna oltre che di figlia; ma una volta lasciata a sé stessa, la ragazza non è in grado di sopportare la sua identità, ancora dirompente ed inedita, e regredisce alla fanciullezza, involvendosi in uno stadio innaturale che prelude alla pazzia totale.
Allo stesso modo, il figlio (Andrès Josè Cruz Soublette), aspirante artista, scopre la sua omosessualità grazie al contatto con il Visitatore; omosessualità che egli non può sorreggere da solo, giacchè essa rappresenta un tabù all'interno della società e che lo fa sprofondare in un vero e proprio caos interiore; turbinio di emozioni infrante che egli cerca invano di catalizzare mediante l'arte, nella quale insegue l'immagine del suo amato, ma invano: la sua anima è vuota e la sua arte è pura spazzatura, pittura fatta di frammenti di idee prive di vera ispirazione che ne attesta la totale inettitudine, che egli ora ammette candidamente a sè stesso; il figlio rappresenta al contempo quella classe di bohèmien finto intellettuali che, nella visione di Pasolini, celano la propria vacuità sotto lo strato della contestazione artistica e politica, inneggiando slogan iconoclastici ma compiaciuti e, quindi, irrazionali e stupidi.
La madre (Silvana Mangano) trova nelle attenzioni del Visitatore l'emozione, il fremito sessuale che la porta a realizzare come la sua vota di fatto fosse un vuoto, un nulla nel quale ella si crogiolava senza coscienza di sé o degli altri e senza alcun interesse in qualsiasi cosa; venuto meno l'appoggio dell'amante, la donna sprofonda nella disperazione e cerca l'amore in altri ragazzi, surrogati del giovane, i "ragazzi di vita" della periferia, ritrovandosi in un mondo fino ad allora sconosciuto; ricerca che però non avrà alcun esito se non la sua degradazione morale e materiale (la copulazione in un fosso); tuttavia, Pasolini vuole dare un appiglio di speranza in extremis al personaggio facendole scoprire la fede, ma lasciandola in sospeso, giacché il vuoto interiore che dimostra, forse, non può essere colmato dalla fede, a maggior ragione da una fede "di riporto", usata come palliativo per colmare le proprie mancanze in assenza di altro.
Infine, il padre (un magnifico Massimo Girotti) confrontandosi con il Visitatore viene a contatto con un proprio alter-ego; un giovane puro, privo di preconcetti, che lo guarisce miracolosamente dalla malattia (fisica e mentale) che lo affligge; il confronto tra i due viene lasciato dall'autore fuori scena, ma le conseguenze distruttive sono esplicate nel bellissimo finale: il ricco peccatore si spoglia dei suoi averi, che regala agli sfruttati (i suoi operai) e si ritrova, idealmente e fisicamente, nel deserto, ora non più soltanto luogo interiore; nudo e solo, urla la sua disperazione iniziando un ideale cammino di penitenza.
Perno dell'intera narrazione è il Visitatore, che Pasolini modella sullo sguardo magnetico e profondo del grande Terence Stamp; egli è il termine di paragone del "teorema" che il grande autore elabora: la rivoluzione, quella vera e feconda, può avvenire solo mediante una catarsi della classe borghese; catarsi operabile solo facendo scontrare i non-valori che essa persegue con la verità celata ed occultata; il Visitatore è quindi elemento di disturbo, ammantato da un'aura mistica: è un guaritore, una sorta di messia laico che illumina la strada agli uomini mettendoli a confronto con loro stessi; un messia dallo sguardo profondo e dal sorriso vagamente beffardo, ma che non si diverte nell'atto della distruzione in sè, quanto nella forza catartica dello stesso; un "illuminato" che si fa uomo e che redime i peccatori senza istanze superomistiche o apocalittiche, senza condannare, usando unicamente la forza della verità come veicolo per il cambiamento, per il ribaltamento della menzogna; un essere quasi etero nonostante la forte componente carnale, perchè senza passato e senza futuro, eterno, che viene e va senza motivo e senza meta, con solo un messo (chiamato appunto Angelino) ad annunciarne la venuta.
E nel ritrarre il suo teorema rivoluzionario, Pasolini crea immagini forti, dall'inusitata profondità nelle scene degli interni della villa e la cui costruzione pittorica diviene meno pressante; nella narrazione elimina quasi totalmente i dialoghi, ridotti quasi esclusivamente ai monologhi che i personaggi recitano nel commiato al Visitatore, e lascia che siano i rumori della natura, volutamente "estranei" rispetto alla scena, e la musica del Requiem di Mozart ad esprimere le sensazioni dei personaggi. Nel ritrarre il risveglio della carne, l'autore infrange ogni tabù e mostra corpi nudi anche in primissimo piano; operazione già di per sé ardita per l'epoca, che diviene volutamente provocatoria quando mostra l'omosessualità del figlio, ritratta senza morbosità o voglia di scandalizzare, ma in modo semplice e diretto, generando (all'epoca) vero scandalo.
E se la dicotomia borghese/proletario appare oggi superata, la forza di "Teorema" è in realtà ora decuplicata; a seguito della perdita totale di valori che il nostro paese ha attraversato a partire dagli anni '80 e che ha riplasmato la società in un gioco infinito di apparenze e menzogne, la forza iconoclastica del film oggi è divenuta universale e per questo ancora più scottante e dirompente; prova che i veri capolavori non invecchiano mai.
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