All is Lost
di J.C. Chandor
con: Robert Redford
Usa (2013)
Il minimalismo stilistico e narrativo è la chiave migliore per raccontare lo spirito di sopravvivenza? Vedendo due pellicole come "Gravity" e "All is Lost" verrebbe da rispondere con un secco "si"; due film che pongono al centro un protagonista solitario (qui incarnato da un magnifico Robert Redford) costretto a sopravvivere alle avversità in un ambiente ostile; due opere che, a prescindere dal tema portante, si completano a vicenda, creando un ideale circolarità reciproca.
Il protagonista non ha un nome, non è immerso in un contesto alcuno se non quello del viaggio, il quale non ha idealmente nè inizio né fine; entrambi iniziano e finiscono con il film, vivono unicamente all'interno dei 105 minuti di durata; l'incidente iniziale è solo un pretesto per l'avvio della narrazione, la quale si concentra totalmente sul volto e sul corpo di Redford, che dimostra come a 77 anni suonati si possa ancora reggere sulle proprie solide spalle un'intera pellicola; e se nel film di Cuaròn l'uomo era immerso in una serie di accadimenti sui quali non aveva controllo, potendosi solo appellare alle proprie forze e alla provvidenza, il mondo di "All is Lost" è invece totalmente antropocentrico: l'uomo è solo e sperduto, ma non esistono né la provvidenza, né rapporti di causa ed effetto; le insidie che il protagonista deve affrontare di volta in volta (le tempeste, gli squali, la scarsità di viveri) sono totalmente accidentali e slegate tra loro; per superarle, egli può solo far ricorso al proprio ingegno: non esiste (più) tecnologia a cui appellarsi, si è (nuovamente) immersi in un ideale passato remoto, nel quali gli strumenti sono rudimentali e subordinati all'umana mestizia.
E se Cuaròn costruiva l'intera narrazione come una serie di piani sequenza legati tra loro, J.C. Chandor (già autore dell'interessante "Margin Call" del 2011) adotta uno stile classico, fatto di stacchi e montaggio non lineare, cucendo addosso al protagonista ogni singola inquadratura; l'apice viene raggiunto dall'uso del sonoro, ridotto praticamente all'essenziale: zero dialoghi, se si escludono un monologo nel prologo e qualche battuta nei primi minuti, e musica ridotta all'osso per lasciare spazio ai rumori della natura, alle onde del mare e all'incedere dei venti; stile che affascina, anche se la ripetitività delle azioni e qualche inutile lungaggine rendono la parte centrale un pò troppo farraginosa.
E alla fine della visione ci si accorge, proprio come accadeva con "Gravity", di come anche "All is Lost" alla fine non sia la metafora di nulla, ma, più semplicemente, un'esperienza sensoriale, che punta a trascinare lo spettatore ad un'empatia totale con il protagonista, riuscendoci perfettamente.
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