con: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Galatea Ranzi, Isabella Ferrari, Massimo De Francovich, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, Carlo Buccirosso, Giorgio Pasotti, Vernon Dobtcheff.
Italia, Francia (2013)
Difficile giudicare un film come "La Grande Bellezza"; difficile dare un peso ad un'opera volutamente vuota, pretenziosa e "molesta"; d'altro canto, il limite intrinseco del cinema di Paolo Sorrentino è sempre lo stesso: una forma sgargiante, energica e pulsante che però, a tratti, rischia di divorare la sostanza, intesa sia come semplice "contenuto" che come racconto vero e proprio.
In una Roma decadente e sfatta si muove il giornalista e scrittore Gep Gambardella (un Toni Servillo al solito sublime); tra una festa e l'altra, Gep rimugina sul suo passato, sulle occasioni mancate, si innamora della bella spogliarellista Ramona (Sabrina Ferilli) e cerca di dare un senso ad una vita fatta solo di eccessi.
Inutile cercare paragoni con il cinema di Fellini, in particolare con "La Dolce Vita" (1960) e "Roma" (1972); Sorrentino non volge uno sguardo "morale" alla movida romana, né si limita ad omaggiare la Città Eterna; la sua è una visione disincantata e delusa di un mondo in cui l'eccesso e l'autocompiacimento sono diventati l'unica vera ragione di vita degli esseri umani; Gep, e con lui tutti i personaggi, sono "uomini vuoti", persone prive di idee, ideali e volontà, se non quella di muoversi, di ballare, di apparire per il solo gusto di farlo; la forza dell'immagine virtuale divine così unico valore ricercato ed ostentato fino all'iperbole; e di fatto ogni personaggio è una caricatura di sé stesso, un coacervo di difetti fisici emblemi della propria vacuità intellettuale, somigliando a zombi sfatti che si muovono ritmicamente sullo sfondo di una notte eterna. La disanima del "berlusconismo", inteso come cultura edonista fine a sé stessa, diviene così il perfetto specchio di una società sull'orlo del baratro, poichè incapace di creare (il "blocco dello scrittore" che affligge il protagonista da quasi quarant'anni è perfetta metafora della fine della cultura in Italia) e, sopratutto, dimentica del proprio passato.
E proprio il ricorso al "ritorno al passato" come forza salvifica è l'aspetto meno riuscito del paradigma di Sorrentino; ciò per due motivi innegabili: la vacuità intellettuale ed intellettiva ritratta come vizio della "dolce vita" capitolina oramai è stata sdoganata ad ogni latitudine del Paese; inutile continuare a vedere, nel 2013, il piccolo paese di provincia come "oasi felice" scevra dalla corruzione morale quando questa è ormai parte integrante dell'intero sistema-Paese e non più relegata alla sola metropoli; e, in secondo luogo, ciò è ancora peggio se si tiene conto di come lo stesso edonismo berlusconiano è esso stesso un'incrostazione di un passato ormai remoto, che perdura da più di due decenni e che, quindi, ha reso il passato del nostro paese una vera e propria "culla di mostri", piuttosto che un paradiso perduto.
L'estetica sorrentiniana è però perfetta per ritrarre lo squallore delle "feste" notturne; come Virzì nel coevo "Il Capitale Umano", anche Sorrentino descrive i personaggi che popolano il suo mondo come dei freaks sfatti, iperboli di un mondo vuoto; e se i festaioli non sono che dei mostri che giocano alla bella vita, la sferzata più feroce Sorrentino la infligge alla classe intellettuale, vera responsabile del tracollo dell'Italia; tutti i cosidetti "eruditi" vengono passati in rassegna e distrutti di volta in volta; a partire dal protagonista, Gep, uno scrittore graziato da un unico successo editoriale che campa di rendita da oltre quarant'anni, riducendosi a fare l'intervistatore a tempo perso; il personaggio di Romano (un Carlo Verdone finalmente privato delle sue caratteristiche "maschere", che dona un'ottima performance) è l'emblema del drammaturgo finto-impegnato, la cui ottusa militanza intellettualoide non lo ha portato da nessuna parte, se non a rinchiudersi in un guscio di illusioni (la messa in scena dello spettacolo su D'Annunzio) e allo sfruttamento da parte delle sue "ragazzette"; il personaggio di Stefania è quello su cui l'autore riversa la critica più polemica: intellettuale di sinistra altezzosa e finto-impegnata, viene letteralmente fatta a pezzi su tutte le sue convinzioni, svelando il meccanismo di "borghesizzazione" che ha distrutto la classe intellettuale dall'interno; su tutti è però il personaggio dell'artista radical-chic a stupire: vero e proprio stereotipo della stupidità che infesta il mondo dell'arte moderna, esso viene letteralmente distrutto da Sorrentino mediante la semplice messa in scena della sua genuina cretinagine e ritratta come un coacervo di tutta la ruffianeria compiaciuta propria della classe intellettuale.
Eppure, anche nella critica alla società intellettuale, la disanima di Sorrentino diviene a tratti incerta; il vuoto pneumatico che avvolge i personaggi viene ben rappresentato, ma quando si tratta creare una controparte portatrice di valori, l'autore incespica; nel descrivere il personaggio de "La Santa", Sorrentino vorrebbe creare un ideale contraltare alla vacuità propria degli intellettuali, ma delineandola come una vecchia semirimbambita si contraddice da solo; se è vero che la società ecclesiastica formata dai sacerdoti e cardinali è vacua come gli edonisti, allora perchè descrivere un personaggio vero portatore di ideale positivi come una mummia pluricentenaria per poi cercare di darle dignità, in extremis, nel climax della scala? Forse nella visione di Sorrentino anche il redentore porta con sé i germi di coloro che deve redimere? Non è dato saperlo. Dubbi di caratterizzazione che affliggono anche l'altro personaggio "positivo" della pellicola, quella Ramona che a tratti sembrerebbe figura salvifica, ma che Sorrentino fa impersonare a Sabrina Ferilli, la quale dona certamente una carica di sensualità materna al personaggio, ma il cui viso sfregiato dal lifting la pone, idealmente, sullo stesso piano degli altri personaggi del film.
Il difetto veniale del cinema di Sorrentino è sempre stato quello dell'estrema ed ossessiva ricercatezza estetica; se nei suoi precedenti lavori, fino al capolavoro "Il Divo" (2008), la sperimentazione stilistica era ben controbilanciata dal contenuto, a partire dal precedente "This Must be the Place" (2011) la forma diviene sostanza, annacquando ogni il racconto, il quale viene inevitabilmente sottomesso ai movimenti di macchina; difetto che non sfugge neanche ne "La Grande Bellezza": la ricerca di un effetto estetico sbalorditivo ed elegante è avvertibile in ogni singolo fotogramma; l'uso del montaggio, qui più frammentario che mai, spezza letteralmente ogni singola scena in una serie indefinita di immagini perfettamente concepite e splendidamente fotografate; eppure, la ricercatezza estrema finisce talvolta per divorare il racconto, che incespica tra sottotrame solo abbozzate (la pazzia del ragazzo, l'epilogo della storia di Ramona) ed occasioni sprecate (il giro notturno tra i palazzi antichi); forma e sostanza, così, si inseguono in una caccia forsennata dove è la prima, inevitabilmente a vincere; sorge però spontaneo un dubbio, purtroppo privo di risposta: in una pellicola che ritrae il vuoto esistenziale di società sull'orlo del collasso perchè dedita ad un edonismo autodistruttivo e compiaciuto, la cannibalizzazione del racconto da parte della messa in scena è davvero un difetto?
concordo con te sul mantenere aperto l'ultimo interrogativo - giorgio
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