di Pier Paolo Pasolini.
con: Franco Citti, Silvana Mangano, Carmelo Bene, Julian Beck, Ninetto Davoli, Luciano Bartoli, Alida Valli, Francesco Leonetti, Ahmed Belhachmi, Giandomenico Davoli.
Italia, Marocco (1967)
Lasciatosi alle spalle le influenze neorealiste (oramai totalmente assimilate al suo stile e ricodificate a proprio piacimento), nonchè le metafore favolistiche, Pasolini comincia con "Edipo Re" un lungo e complesso percorso di maturazione artistica, laddove per maturazione va intesa la capacità dell'autore di ritrarre con ancora maggiore disincanto la realtà che lo circonda e di denunciarne le brutture in modo ancora più diretto e graffiante, sebbene sempre attraverso l'uso della metafora. Metafora che in questo caso si rifà al mito greco, quell' "Edipo" ripreso da Freud per indicare la devianza sessuale e che il grande autore rimodella come parabola sull'incapacità dell'essere umano di accettare i propri errori.
Nell'Italia fascista, una giovane madre (Silvana Mangano) mette al mondo un piccolo bambino, che accudisce con amore; tuttavia, il padre (Luciano Bartoli) vede nel piccolo una minaccia al suo potere patriarcale e maschile e decide di abbandonarlo; lo scenario diviene così quello di un mondo antico, una Grecia (forse) dai connotati primordiali; qui il bambino viene adottato dal re di Corinto (Ahmed Belhachmi) e ribattezzato "Edipo", letteralmente "colui che ha i piedi gonfi"; una volta cresciuto, Edipo (Franco Citti) si reca a Delfi per consultare l'oracolo, il quale lo ammonisce sul suo futuro: lui ucciderà il padre e giacerà con la madre; in preda al panico, il giovane fugge nelle campagne, dove tra i vari incontri incrocia anche un vecchio altezzoso con il quale attacca una brusca lite che culmina nel massacro. Arrivato a Tebe, Edipo incontra il messaggero Angelo (Ninetto Davoli), che lo informa della piaga che affligge la città: una mostruosa sfinge fuoriuscita da un abisso terrorizza il popolo; Edipo ricaccia la sfinge nel baratro e in cambio viene acclamato come nuovo sovrano; sposa la regina Giocasta (Silvana Mangano), con la quale intreccia un'appassionata storia d'amore. Tuttavia la felicità è di breve durata: un'epidemia si abbatte sulla città; per capire come sconfiggere il male, Edipo manda il cognato Creone (Carmelo Bene) a consultare l'oracolo di Delfi, il cui responso è secco: l'uccisore del vecchio re Laio va scacciato dalla città o ucciso; non riuscendo a trovare il colpevole, Edipo chiama a corte il profeto cieco Tiresia (Julian Beck), il quale fa un'atroce rivelazione: è stato Edipo ad uccidere Leio, ed Edipo stesso era il di lui figlio; l'epidemia è causata dai suoi peccati di violenza ed incesto; incredulo, il giovane re scaccia il profeta, ma deve ricredersi quando un vecchio servo di Leio (Francesco Leonetti) gli confessa di averlo abbandonato in tenera età nel deserto su ordine di suo padre il re e di essere poi stato adottato dai sovrani di Corinto; in preda all'orrore, Giocasta si uccide, mentre Edipo si cava gli occhi. Ormai stanco e disincantato, Edipo vaga per l'Italia contemporanea assistito da Angelo, fino a ritornare al luogo in cui la madre lo allattava e che ora sarà la sua tomba.
Il personaggio di Edipo è, prima di tutto, perfetta declinazione dell' italiano medio contemporaneo dell'autore: un "figlio della fortuna", un trovatello lasciato a morire dai suoi padri, ossia quella società fascista che sembrava non avere cuore per il futuro, ma solo per sé stessa; Edipo è però anche e sopratutto l'emblema dell'uomo moderno tout court: perseguitato da uno sciagurato destino a cui non può sottrarsi, egli non vuole letteralmente vedere il proprio male, ossia non vuole ammetterlo; per fuggire al peccato, l'uomo si esilia volontariamente dalla società (Corinto) e vaga in balia del caso (il deserto), facendo incontri inutili (la donna, il matrimonio), poichè del tutto ininfluenti sul suo futuro; futuro che, come nelle previsioni degli oracoli, è immodificabile: Edipo è destinato a compiere l'assassinio del padre e nulla può cambiare questo fatto. Tuttavia, l'enfasi viene posta da Pasolini non tanto sull'incapacità dell'uomo di plasmare il proprio fato, quanto sulla sua incapacità di comprendere ciò che lo circonda; ecco dunque Edipo "scomparire" dinanzi ai presenti a Delfi per rinchiudersi in sé stesso; o ancora accusare Creonte e Tiresia di complottare ai suoi danni; la verità viene volontariamente evitata, perchè scomoda, scandalosa fino al punto di debilitare lo status quo, di far decadere il re dal suo trono e dal suo ruolo di salvatore dei popoli; eppure, per quanto obliata, la verità continua ad esistere e a perseguitare l'uomo, manifestandosi come malattia, intesa come punizione atroce per il peccato, e sopratutto come ossessione che affligge l'animo di chi vorrebbe comprendere, ma al contempo ha troppa paura per poter "vedere".
Nella sua disperazione, l'uomo è solo; Pasolini da forma alla solitudine non tanto e non solo con gli splendidi paesaggi desertici del Marocco, quanto con i lunghi silenzi; i dialoghi sono ridotti all'osso: sopratutto nella prima parte, la colonna sonora è composta esclusivamente da musica e dai rumori del vento; i pensieri dei personaggi principali (Edipo e Laio) vengono affidati alle didascalie, che appaiono giustapposte ai loro primi piani come all'epoca del muto; "Edipo Re" diviene così un'opera fatta di sensazioni e pensieri, in cui le immagini sono messe totalmente al servizio del contenuto, il quale viene esposto con metafore cristalline, mai velleitarie o criptiche, proprio come nel mito classico.
Mito che Pasolini trasforma in parabola moderna; il prologo e l'epilogo si riallacciano alla biografia dell'autore: l'ambientazione nella Bologna contemporanea trasforma il personaggio di Edipo in un ideale doppio del regista; dapprima bambino non voluto da una società chiusa ed ottusa, Edipo diviene un nuovo profeta: conscio del suo peccato, espiato mediante l'accecamento, egli si muove in due luoghi simbolo dell'antropologia pasoliniana, ovvero il centro storico e la periferia; in entrambi i luoghi, Edipo suona il suo flauto, ma non viene ascoltato né dai ricchi borghesi, tantomeno dagli scanzonati figli del populino; colui che sa, che riesce a vedere il vero poichè lo ha accettato pienamente, non può ammonire gli altri, divenendo un nuovo Tiresia, ossia un profeta inascoltato e scacciato; all'intellettuale non resta così che chiudersi di nuovo in sè stesso ("Dovevo tagliarmi anche le orecchie per chiudermi ancora di più in me stesso!" afferma nel climax), questa volta conscio di tutto ciò che lo circonda; e il punto d'arrivo del suo vagabondare non può che coincidere con il punto di inizio.
La circolarità diviene così la peggiore delle spirali mortali: un mondo incapace di accettare la verità, né di ascoltare chi questa verità propugna non può che ritornare alle sue origini; ritorno simboleggiato sia dal doppio piano temporale che dal finale in cui Edipo ritorna nel luogo ove la madre lo allattava: ritorno al punto di partenza che annulla idealmente l'intero percorso del personaggio, la cui esistenza diviene così mero fatto, un dato grezzo ed informe incapace di incidere sulla vita degli altri, cosi come la vita degli altri non riusciva ad incidere sulla sua quando era egli a fuggire dalle profezie veritiere.
Il pessimismo di Pasolini raggiunge così una vetta inusitata: l'uomo è per sua stessa natura malvagio ("La tua vita è un enigma" e "L'abisso in cui mi ricacci è dentro di te!" sono le parole anch'esse veritiere ed inascoltate pronunciate dalla mostruosa sfinge al protagonista), l'uomo non accetta la sua natura, né vuole vederla; la fuga da sé stessi è impossibile e l'accettazione del proprio male porta ad una catarsi inutile; non vi è speranza di redenzione, non vi è salvezza per coloro che non sanno ascoltare, che non vogliono vedere.
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