12 Years a
Slave
di Steve
McQueen
con: Chiwetel
Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Lupita Nyong’O, Paul Dano,
Brad Pitt, Micheal Kenneth Williams, Paul Giamatti, Garret Dillahunt.
Biografico
Usa,
Inghilterra (2013)
Trattare in modo originale un tema spigoloso ed abusato
quale il razzismo è, oggi come oggi, un’impresa ai limiti dell’impossibile;
dopo decenni di pellicole americane nelle quali l’argomento è stato sviscerato
in tutti i modi possibili, trovare una chiave di lettura originale e al
contempo catartica è impresa quasi impossibile, sopratutto se si tiene conto di
come di recente il rigore morale di “Venere Nera” (2010) e il geniale iperrealismo di “Django Unchained”
(2012) si siano imposti come perfetta espressione degli orrori dello
sfruttamento razziale; e basterebbe dare un'occhiata all'acclamato drammone strappalacrime "The Butler" (2013) per rendersi quanto sia difficile trovare un equilibrio effettivo tra impegno politico e ritratto emozionante nel narrare la storia dei conflitti razziali in America senza scadere nel ricattatorio. Al suo terzo lungometraggio, Steve McQueen, inglese e
nero, riesce però nel miracolo: creare un ritratto impietoso e al contempo
equilibrato dello schiavismo, portando sul Grande Schermo la complessa ed
affascinante storia vera di Solomon Northup.
Saratoga, New York, 1841; Solomon Northup (Chiewetel
Ejiofor) è un afroamericano nato libero, esponente della piccola borghesia ed
apprezzato violinista; a seguito di un inganno, Northup viene venduto da due
cacciatori di schiavi al mercato di New Orleans, dove viene ribattezzato "Platt" e acquistato come
bracciante nella segheria del sig.Ford (Benedict Cumberbatch); sarà l’inizio
della sua esperienza come schiavo, che durerà ben dodici anni.
Il rischio nel portare in scena una storia del genere, come si è detto, è
scontato: creare una narrazione strappalacrime, retorica o, peggio,
ruffiana verso il pubblico, facendo leva, magari, sul suo inconscio senso di colpa; ma McQueen schiva abilmente tutte le trappole e
riesce ad incantare grazie ad uno stile narrativo sobrio e al contempo efficace. Come il Polanski
de “Il Pianista” (2002), anche McQueen adotta totalmente il punto di vista del
protagonista: Solomon è al contempo protagonista e spettatore delle sue azioni e del mondo in cui viene catapultato; lo spettatore assiste così agli orrori
con lo stesso straniamento del personaggio, provando, di volta in volta, ogni sua
sensazione; empatia che il grande autore britannico riesce a convogliare, come
nel suo splendido esordio “Hunger” (2008), usando unicamente immagini basate
sui volti e sui corpi degli attori; e su tutti è naturalmente lo straordinario
protagonista Chiwetel Ejiofor a colpire, grazie ad un’immedesimazione totale
nel personaggio che lo porta a mutare di pari passo con il suo ruolo; McQueen
non esagera mai con l'enfasi, operando un distacco quasi chirurgico dalla
storia, che viene meno solo in alcune delle scene più crude, sottolineate usando le splendide ed essenziali note della colonna sonora di Hans Zimmer; e nonostante l’ampio budget a disposizione, l’autore non calca mai la mano e
confeziona inquadrature essenziali, proprio come nei suoi film
precedenti; largo spazio, ancora, a piani sequenza rigorosi, ma questa volta più brevi ed efficaci, e ad inquadrature
fisse e laterali, che incorniciano perfettamente i personaggi lasciandone trasparire
alla perfezione gli stati d’animo. E le scene in cui McQueen ritrae la
violenza e la cattiveria della società americana trasudano una forza espressiva
inusitata, nonostante l’estrema semplicità della loro composizione; non si può non gridare dal dolore assieme al
protagonista durante la sequenza della sottomissione, girata con un'unica,
fortissima, inquadratura fissa dal basso; non ci si può non indignare di fronte alle sue
grida d’aiuto lanciate a pochi metri dal Campidoglio, enfatizzate da un
semplicissimo movimento di crane; e non ci si può non emozionare nella
splendida, straziante e spiazzante sequenza dell’impiccagione, girata senza
controcampi e priva di sottofondo sonoro
E nel ritrarre il razzismo americano, McQueen mette al bando
ogni sorta di manicheismo tra “bene” e “male”; ogni personaggio ricopre un
perfetto archetipo dell’epoca, rendendo la narrazione stratificata e mai
stereotipata; se Northup rappresenta il punto di vista straniato e straniante
dello spettatore e, in quanto tale, dell’uomo
comune privato di punto in bianco di ogni libertà, i personaggi che gli
gravitano attorno sono perfette incarnazioni della mutevole e contraddittoria
mentalità dell’epoca; Clemens, uno dei
primi compagni di sventure di “Platt”, che prima inneggia i compagni alla
rivolta, ma poi corre tra le braccia del padrone come se niente fosse, è l'incarnazione dello schiavo sottomesso e rassegnato; il sig.
Ford rappresenta il lato più umano del capitalismo patronale, pronto ad
ascoltare e difendere i suoi schiavi, ma lo stesso incapace di considerarli
come esseri umani; Tibets, d'altro canto, è l'incarnazione del razzismo più bieco e compiaciuto, del tutto incapace di trovare la pur minima dignità nel nero; Patsy rappresenta il volto più scomodo della sottomissione:
la schiava donna che, forte delle attenzioni del suo padrone, cerca di sposarlo
per passare dall'altro lato della barricata, come fatto dal personaggio di
Mrs.Shaw e da Eliza, anch'essa caduta in disgrazia come Solomon; il Bass di
Brad Pitt rappresenta il lato più umano e caritatevole del bianco americano:
cresciuto come i padroni nella parola di Dio, è di fatto l’unico che la applica
a dovere e che anticipa il superamento della distinzione tra razze; e non per
nulla, il personaggio ha origine canadese.
Discorso a parte
merita il personaggio di Edwin Epps; volutamente monodimensionale, Epps è il
lato peggiore del capitalismo schiavista; totalmente incapace di concepire lo
schiavo diversamente dalla res, puramente convinto della sacralità delle sue
azioni spregevoli (cita perennemente le Sacre Scritture) e pienamente persuaso
dell’inferiorità del nero nonostante l’attrazione che prova per Patsy; Epps è
il male umano incarnato, un uomo rude e violento ai limiti della follia, ma non
cattivo poiché pura espressione del mondo e dei valori in cui vive; e Michael
Fassbender riesce perfettamente nell'intento di rendere il personaggio
inquietante senza mai farlo scadere nella macchietta, fornendo un’ulteriore
conferma del suo immenso talento attoriale.
Quella di Northup, oltre che la perfetta istantanea degli
orrori dei campi di lavoro del sud degli Stati Uniti, è però anche e soprattutto
una straordinaria storia di sopravvivenza; divenuto schiavo con il nome di “Platt”,
Solomon seppellisce la sua vera identità di uomo libero come suggeritogli nelle
prime battute da Clemens; Solomon comincia così a scivolare verso il suo alter ego
Platt: nonostante i molteplici e disperati tentativi di liberazione (la
lettera, la tentata fuga che termina con la terribile scena dell’impiccagione),
egli alla fine deve arrendersi alla sua condizione, nella splendida scena del
funerale; Solomon sopprime ogni emozione, agisce come un'automa nelle giornate di lavoro, non mostra nessun sentimento; le sue emozioni fuoriescono solo mediante il suo sguardo e la sua tragedia vive sul suo corpo, in particolare nella sua trasformazione fisica; trasformazione a cui lo straordinario protagonista dà vita non solo
con il corpo, ma anche e soprattutto con la voce: da prima pastosa ed elegante,
Ejiofor trasforma poco a poco il timbro vocale in quello di qualsiasi schiavo
analfabeta, per sottolineare l’ideale condizione di “primus inter pares”
acquisita. E quando Platt è chiamato a picchiare Patsy, la trasformazione è ultimata: l'uomo libero è divenuto schiavo, sottomesso per paura delle reazioni del padroni, il cui unico sfogo è l'invocazione di una giustizia divina totalmente astratta che non spaventa nessuno.
Sobrio, eppure coinvolgente, elegantissimo ma al contempo
estremamente crudo, “12 Anni Schiavo” è un capolavoro di stile ed impegno, la
conferma della maestria di McQueen,
impreziosita da due interpretazioni da manuale.
EXTRA:
Usare due bei faccioni ariani per pubblicizzare un film
contro il razzismo; l’ennesima geniale trovata della ormai mitologica distribuzione
italiana.
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