di Tobe Hooper.
con: David Soul, James Mason, Bonnie Bedelia, Lance Kerwin, Elisha Cook Jr., Kenneth McMillian.
Horror
Usa. 1979
L'astio di Stephen King verso il mezzo cinematografico è cosa risaputa ed esilarante. E' noto a tutti, sopratutto ai lettori della prima ora, come King odi le riduzioni dei suoi scritti ai quali non abbia partecipato come sceneggiatore, "colpevoli" di travisare, tagliare o stravolgere il romanzo di partenza per creare qualcosa di nuovo. Ma da buon professore di letteratura e scrittore affermato, King non ha capito (o forse non vuole ammettere) le necessarie differenze esistenti tra il mezzo filmico e quello cartaceo: molte storie, descrizioni, risvolti o situazioni descritte nei suoi libri, trasposti su schermo risulterebbero fiacche o, peggio, ridicole. Tuttavia, come ogni autore affermato, anche King è un integralista integerrimo, quindi più che ammettere le difficoltà di trasposizione, preferisce gettare vetriolo sui registi e sceneggiatori che hanno portato le sue storie al cinema. Creando un effetto a dir poco ilare: impossibile prendere sul serio le critiche mosse allo "Shining" (1980) di Kubrick o all'odiatissimo "La Zona Morta" (1982) di Cronenberg, veri e propri capolavori di stile e contenuto che riescono a reinterpretare la materia di base rendendola ancora più fulgida ed espressiva.
Discorso dissacratorio che si fa puramente ipocrita se si tiene conto di come King, di fatto, debba la sua fama proprio ad una trasposizione di un suo scritto piuttosto che al libro in sé: "Carrie" di Brian De Palma, che nel 1976 sbancò i botteghini di tutto il mondo ed impose il nome di King come decano dell'horror.
D'altro canto le difficoltà nel trasporre i romanzi dell'autore del Maine sono palesi a chiunque ci si sia avvicinato: tonnellate e tonnellate di personaggi descritti fin nei minimi dettagli, costruzione della storia anticlimatica, estrema frammentazione del punto di visto e della composizione narrativa. In sostanza: tutto quello che con King funziona alla grande su carta, diviene o può divenire automaticamente un grosso difetto nella narrazione cinematografica. La semplificazione dei personaggi, sopratutto sul piano quantitativo, è quindi d'obbligo, così come la ricostruzione della storia su di un binario più lineare.
E tra adattamenti fedeli sin nelle virgole ed altri decisamente più liberi, a metà strada si pone il celebre "Le Notti di Salem", trasposizione del secondo romanzo di genere, nonchè primo vero successo commerciale, di King, diretta nel 1979 da Tobe Hooper.
Ambientato nella remota cittadina di Salem's Lot, nell'amato Maine, "Le Notti di Salem" è un romanzo horror atipico ed affascinante: una tranquilla cittadina, nella quale anni prima si era consumato un terribile delitto nella magione di Marston, viene sconvolta nuovamente da una serie di morti e sparizioni dopo che tre stranieri vi si stabiliscono. Questi sono lo scrittore Ben Mears, l'affascinante uomo d'affari Straker e il suo misterioso socio, lo sfuggente Kurt Barlow.
Ispirandosi a "I Peccati di Peyton Place" e al caposaldo del genere "Dracula" di Stoker, King fonde l'horror con lo spaccato di vita; gran parte della narrazione è incentrata sulla descrizione delle vite dei personaggi che popolano il borgo: vite semplici, apparentemente tranquille, ma che sotto sotto nascondono segreti violenti o ipocrisie distruttive. Tutti i personaggi sono spogliati di ogni forma di idealizzazione e mostrati come creature infelici e ossessive. L'orrore subentra così in una quotidianità distrutta dalla propria pochezza per annientare quel poco di buono che ciascuno ha. Orrore che ha un duplice volto. da un lato la magione, teatro di stragi e soprusi che sembra aver assimilato il male che vi si è consumato (tema che King riprenderà nel successivo "Shining"), dall'altro il vampiro che vi si trasferisce, portando in paese una piaga che muterà per sempre i suoi abitanti.
Confrontandosi la figura mitica del vampiro, King dimostra un amore smisurato per la tradizione che lo ha forgiato, sia filmica che letteraria. Il non-morto è qui un uomo affascinante ed affabile, che crea i suoi sottoposti promettendo loro una vita migliore. Le sue fattezze sono quelle di una persona di bell'aspetto, nel quale la componente sessuale risulta più marcata. Ma al contempo, il terrore che incute è primordiale e tangibile, in un misto di attrazione e repulsione che ripropone la dicotomia tra eros e thanatos che lo ha reso celebre.
Il successo del libro fu immediato e sorprendente, tanto che appena quattro anni dopo la pubblicazione parte il progetto di adattamento; questa volta non per il cinema, bensì per la televisione, medium che negli anni '90 ospiterà più volte le opere di King con risultati spesso mediocri, ma che a causa della possibilità di scindere il racconto il più parti ben si adatta alla trasposizione di romanzi. La produzione di "Salem" viene graziata dalla scelta di un regista capace, quell'Hooper che qualche anno prima aveva sconvolto tutti con il viscerale "The Texas Chainsaw Massacre" (1974) e che qui dimostra un polso fermo anche per l'horror più "classico".
Trasporre su schermo le oltre 600 pagine del romanzo e la mole elefantiaca di personaggi non era certo impresa semplice. Ma Paul Monash, già esperto in quanto sceneggiatore della serie televisiva proprio di quel "Peyton Place" che fu d'ispirazione, riesce nell'impresa in modo esemplare: riduce il numero dei personaggi fondendo tra loro ruoli e caratteri in modo da gestirli meglio. I personaggi principali sono tutti lì: lo scrittore Ben Mears dilaniato dai sensi di colpa ed affascinato dal male incombente, che ora ha il volto di David Soul, l'Hutch di "Starsky e Hutch" e che qui si rivela scelta felice, il giovane e vendicativo Mark Petrie, l'inesperta e naif Susan Norton; e sopratutto Straker, la cui caratterizzazione viene resa ancora più sottile e il cui ruolo viene affidato all'immenso James Mason, che riplasma il personaggio in un misto di cattiveria viscerale e sottomissione al suo "padrone", quel Barlow che qui viene spogliato da qualsiasi influenza del Dracula filmico per rifarsi a "Nosferatu il Vampiro" (1922) di Murnau, divenendo una figura mostruosa ed incredibilmente spaventosa. Uniche perdite sono i personaggi di Padre Callahan e Matt Burke: il primo fa una semplice comparsata ed il suo calvario fatto di fede non proprio ferrea e dipendenza dalla bottiglia è assente, mentre il seondo, ribattezzato "Jason", non ha il ruolo di novello Van Helsing che aveva nel libro.
La natura televisiva ha purtroppo fatto invecchiare male l'opera di Hooper. Gli scarsi valori produttivi si riverberano non tanto sugli effetti, che invece sfoggiano una cura inusuale ed ancora efficace, quanto nella messa in scena, molto semplice, talvolta fatta una sola inquadratura per scena ed afflitta da una fotografia scarna.
Di tutt'altro livello sono le sequenze squisitamente d'orrore, nel quale Hooper dà provadi grande maestria. La scena del ritorno del piccolo Danny Glick dal fratello, sotto forma di succhiasangue, stupisce per carica visionaria. Ma è l'entrata in scena di Barlow a costituire il pezzo forte del film: un primo piano voltato a jump-scare che gela il sangue nelle vene, semplicemente da manuale. Così come da antologia è la sequenza della sua distruzione: tesa quasi fino alla disperazione ed incredibilmente espressiva. Monash ed Hooper riescono poi semplificare la conclusione del romanzo senza perdere un'unghia della sua carica di tensione ed aggiungo un epilogo cattivo ed ancora più spiazzante di quello del libro.
In generale, a stupire è la capacità dei due autori di trasporre il senso di terrore sottile e strisciante che permea il romanzo, nonchè il senso di cupezza e tensione utilizzando le basi della messa in scena.
Il successo della mini-serie (due episodi da 90 minuti ciascuno) all'epoca fu notevole, tanto che ne venne creata anche una versione cinematografica da 104 minuti. Per forza di cose, molti degli elementi descrittivi e delle sottotrame sono state eliminate, ma anche questa versione risulta interessante e inquietante, anche grazie agli effetti splatter aggiunti alle scene più cruente.
Naturalmente, la visione della versione integrale resta preferibile, sopratutto per comprendere l'ottima opera di adattamento di Monash, che per una volta pare che non scontentò neanche King.
EXTRA
Nel 2004, l'emittente via cavo TNT ha prodotto un nuovo adattamento di "Salem's Lot". Nonostante un cast di prim'ordine, composta da Rob Lowe, Donald Sutherland, James Cromwell e Rutger Hauer, questa nuova versione non è ai livelli dell'originale di Hooper, a causa della sceneggiatura, questa volta troppo rispettosa del testo originario e della regia piatta e poco ispirata.
Discorso dissacratorio che si fa puramente ipocrita se si tiene conto di come King, di fatto, debba la sua fama proprio ad una trasposizione di un suo scritto piuttosto che al libro in sé: "Carrie" di Brian De Palma, che nel 1976 sbancò i botteghini di tutto il mondo ed impose il nome di King come decano dell'horror.
D'altro canto le difficoltà nel trasporre i romanzi dell'autore del Maine sono palesi a chiunque ci si sia avvicinato: tonnellate e tonnellate di personaggi descritti fin nei minimi dettagli, costruzione della storia anticlimatica, estrema frammentazione del punto di visto e della composizione narrativa. In sostanza: tutto quello che con King funziona alla grande su carta, diviene o può divenire automaticamente un grosso difetto nella narrazione cinematografica. La semplificazione dei personaggi, sopratutto sul piano quantitativo, è quindi d'obbligo, così come la ricostruzione della storia su di un binario più lineare.
E tra adattamenti fedeli sin nelle virgole ed altri decisamente più liberi, a metà strada si pone il celebre "Le Notti di Salem", trasposizione del secondo romanzo di genere, nonchè primo vero successo commerciale, di King, diretta nel 1979 da Tobe Hooper.
Ambientato nella remota cittadina di Salem's Lot, nell'amato Maine, "Le Notti di Salem" è un romanzo horror atipico ed affascinante: una tranquilla cittadina, nella quale anni prima si era consumato un terribile delitto nella magione di Marston, viene sconvolta nuovamente da una serie di morti e sparizioni dopo che tre stranieri vi si stabiliscono. Questi sono lo scrittore Ben Mears, l'affascinante uomo d'affari Straker e il suo misterioso socio, lo sfuggente Kurt Barlow.
Ispirandosi a "I Peccati di Peyton Place" e al caposaldo del genere "Dracula" di Stoker, King fonde l'horror con lo spaccato di vita; gran parte della narrazione è incentrata sulla descrizione delle vite dei personaggi che popolano il borgo: vite semplici, apparentemente tranquille, ma che sotto sotto nascondono segreti violenti o ipocrisie distruttive. Tutti i personaggi sono spogliati di ogni forma di idealizzazione e mostrati come creature infelici e ossessive. L'orrore subentra così in una quotidianità distrutta dalla propria pochezza per annientare quel poco di buono che ciascuno ha. Orrore che ha un duplice volto. da un lato la magione, teatro di stragi e soprusi che sembra aver assimilato il male che vi si è consumato (tema che King riprenderà nel successivo "Shining"), dall'altro il vampiro che vi si trasferisce, portando in paese una piaga che muterà per sempre i suoi abitanti.
Confrontandosi la figura mitica del vampiro, King dimostra un amore smisurato per la tradizione che lo ha forgiato, sia filmica che letteraria. Il non-morto è qui un uomo affascinante ed affabile, che crea i suoi sottoposti promettendo loro una vita migliore. Le sue fattezze sono quelle di una persona di bell'aspetto, nel quale la componente sessuale risulta più marcata. Ma al contempo, il terrore che incute è primordiale e tangibile, in un misto di attrazione e repulsione che ripropone la dicotomia tra eros e thanatos che lo ha reso celebre.
Il successo del libro fu immediato e sorprendente, tanto che appena quattro anni dopo la pubblicazione parte il progetto di adattamento; questa volta non per il cinema, bensì per la televisione, medium che negli anni '90 ospiterà più volte le opere di King con risultati spesso mediocri, ma che a causa della possibilità di scindere il racconto il più parti ben si adatta alla trasposizione di romanzi. La produzione di "Salem" viene graziata dalla scelta di un regista capace, quell'Hooper che qualche anno prima aveva sconvolto tutti con il viscerale "The Texas Chainsaw Massacre" (1974) e che qui dimostra un polso fermo anche per l'horror più "classico".
Trasporre su schermo le oltre 600 pagine del romanzo e la mole elefantiaca di personaggi non era certo impresa semplice. Ma Paul Monash, già esperto in quanto sceneggiatore della serie televisiva proprio di quel "Peyton Place" che fu d'ispirazione, riesce nell'impresa in modo esemplare: riduce il numero dei personaggi fondendo tra loro ruoli e caratteri in modo da gestirli meglio. I personaggi principali sono tutti lì: lo scrittore Ben Mears dilaniato dai sensi di colpa ed affascinato dal male incombente, che ora ha il volto di David Soul, l'Hutch di "Starsky e Hutch" e che qui si rivela scelta felice, il giovane e vendicativo Mark Petrie, l'inesperta e naif Susan Norton; e sopratutto Straker, la cui caratterizzazione viene resa ancora più sottile e il cui ruolo viene affidato all'immenso James Mason, che riplasma il personaggio in un misto di cattiveria viscerale e sottomissione al suo "padrone", quel Barlow che qui viene spogliato da qualsiasi influenza del Dracula filmico per rifarsi a "Nosferatu il Vampiro" (1922) di Murnau, divenendo una figura mostruosa ed incredibilmente spaventosa. Uniche perdite sono i personaggi di Padre Callahan e Matt Burke: il primo fa una semplice comparsata ed il suo calvario fatto di fede non proprio ferrea e dipendenza dalla bottiglia è assente, mentre il seondo, ribattezzato "Jason", non ha il ruolo di novello Van Helsing che aveva nel libro.
La natura televisiva ha purtroppo fatto invecchiare male l'opera di Hooper. Gli scarsi valori produttivi si riverberano non tanto sugli effetti, che invece sfoggiano una cura inusuale ed ancora efficace, quanto nella messa in scena, molto semplice, talvolta fatta una sola inquadratura per scena ed afflitta da una fotografia scarna.
Di tutt'altro livello sono le sequenze squisitamente d'orrore, nel quale Hooper dà provadi grande maestria. La scena del ritorno del piccolo Danny Glick dal fratello, sotto forma di succhiasangue, stupisce per carica visionaria. Ma è l'entrata in scena di Barlow a costituire il pezzo forte del film: un primo piano voltato a jump-scare che gela il sangue nelle vene, semplicemente da manuale. Così come da antologia è la sequenza della sua distruzione: tesa quasi fino alla disperazione ed incredibilmente espressiva. Monash ed Hooper riescono poi semplificare la conclusione del romanzo senza perdere un'unghia della sua carica di tensione ed aggiungo un epilogo cattivo ed ancora più spiazzante di quello del libro.
In generale, a stupire è la capacità dei due autori di trasporre il senso di terrore sottile e strisciante che permea il romanzo, nonchè il senso di cupezza e tensione utilizzando le basi della messa in scena.
Il successo della mini-serie (due episodi da 90 minuti ciascuno) all'epoca fu notevole, tanto che ne venne creata anche una versione cinematografica da 104 minuti. Per forza di cose, molti degli elementi descrittivi e delle sottotrame sono state eliminate, ma anche questa versione risulta interessante e inquietante, anche grazie agli effetti splatter aggiunti alle scene più cruente.
Naturalmente, la visione della versione integrale resta preferibile, sopratutto per comprendere l'ottima opera di adattamento di Monash, che per una volta pare che non scontentò neanche King.
EXTRA
Nel 2004, l'emittente via cavo TNT ha prodotto un nuovo adattamento di "Salem's Lot". Nonostante un cast di prim'ordine, composta da Rob Lowe, Donald Sutherland, James Cromwell e Rutger Hauer, questa nuova versione non è ai livelli dell'originale di Hooper, a causa della sceneggiatura, questa volta troppo rispettosa del testo originario e della regia piatta e poco ispirata.
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