giovedì 16 febbraio 2023

Triangle of Sadness

di Ruben Östlund.

con: Harris Dickson, Charibi Dean, Woody Harrelson, Vicki Berlin, Dolly De Leon, Alicia Eriksson, Zlatko Buric, Carolina Gynning, Amanda Walker.

Grottesco

Svezia, Francia, Regno Unito, Germania, Messico, Turchia, Grecia, Usa, Danimarca, Svizzera - 2022










Esaltare la demascolinizzazione e umiliare la figura del maschio, possibilmente eterosessuale, è praticamente un passatempo nazionale in Svezia, forse la nazione più orgogliosamente misandrica al mondo; essere originali sull'argomento, creare ritratti che siano interessanti prima ancora che riusciti con al centro figure maschili inette e codarde, è di conseguenza compito assai arduo; cosa che, paradossalmente, riesce bene a Ruben Östlund, il quale, da perfetto figlio della nazione scandinava, si è sempre divertito a descrivere i lati più ottusi e ridicoli del "sesso dominante".
"Triangle of Sadness" da questo punto di vista rappresenta solo il tassello migliore nella sua filmografia, la quale giunge al canonico "punto d'arrivo" con un'opera imperfetta, ma al contempo riuscitissima e dannatamente divertente. 




Ma tale punto d'arrivo non si limita a riprendere un discorso già elaborato e a ripeterlo, quanto ad elevarlo ad un livello successivo, inscrivendo la riflessione "misandrica" all'interno di un contesto sociale. Östlund parte sostanzialmente da un territorio a lui congeniale per poi approdare ad un livello superiore, quello della critica sociologica.
Tutta la prima parte, il primo dei primi tre capitoli, è dedicata a Carl (Harris Dickson), modello non troppo affermato, e alla sua relazione con Yaya (Charibi Dean), anch'ella modella e influencer.
Relazione totalmente basata sulla sovversione del canone del potere maschile; non per niente, il film si apre con un casting (che chiarifica anche un primo significato del titolo, riferendolo allo spazio tra le sopracciglia) nel quale la classica descrizione dello sfruttamento del corpo viene riferita a quello maschile, oggettificato in maniera esplicita e dove per di più viene chiaramente affermato come i modelli maschi siano sottoapagati, che facciano, di conseguenza, un lavoro ingrato per un puro appagamento egoistico.
Nel rapporto di coppia, è Yaya ad essere dominante, sia a causa di una superiorità caratteriale, sia e soprattutto a causa di una superiorità economica, la quale, pur contestata, continua a sussistere e a costituire motivo di scontro. Inferiorità interiore e sociale cominciano già qui ad andare di pari passo, pronti ad acuirsi nel secondo capitolo.



Qui l'azione si sposta si di uno yacht di lusso, perfetto microcosmo volto ad illustrare le ipocrisie della società capitalista occidentale.
Il personale di bordo, costituito da lavoratori appartenenti agli strati più "bassi" della società, viene letteralmente istruito ad essere compiacente al fine di ottenere un maggior riconoscimento economico; l'ossessione per la perfezione propria della moderna ristorazione viene così riletta come pura pulsione d'avarizia.
Non che in realtà le gelosie date dallo status di "maschio beta" non continuino a sussistere in tale parte; una delle sequenze più acide è di fatto quella nella quale Carl fa letteralmente licenziare un marinaio reo di essere più affascinante di lui. Ma il nodo centrale è dato dalla descrizione dissacrante di una classe dirigente che, come da copione, è tanto ricca quanto idiota.



Carl e Yaya scompaiono gradualmente da tale rappresentazione, assorbiti nel corpus di un cast di personaggi sopra le righe, ma riescono lo steso a fare capolino quando si tratta di mettere alla berlina le cretinate tipiche degli influencer, i cui guadagni basati letteralmente sul nulla risultano persino più squallidi di chi è diventato ultramilionario vendendo letteralmente merda.
Tre sono i personaggi che finiscono per colpire di più, ossia l'anziana coppietta inglese e il capitano. I primi sono caratterizzati come due dolci innamorati che hanno fatto carriera vendendo armi e che trovano un contrappasso proprio grazie ad una granata. Il secondo è forse il personaggio più memorabile di tutto il cast, impersonato da un Woody Harrelson al solito fantastico: un uomo palesemente schifato dal contesto in cui lavora e che preferisce rinchiudersi in cabina ad ubriacarsi sulle note dell' "Internazionale" piuttosto che assistere alla volgarità degli ospiti; il quale finisce il suo tempo delirando sul lascito di Marx.



Ed è la volgarità intrinseca alla ricchezza che Östlund distrugge in quella che resta la scena più famosa del film, ossia la cena in presenza del capitano che a causa del mare grosso si trasforma in un'epidemia di vomito e diarrea. Come Chazelle in "Babylon", anche lui si diverte a dissacrare la ricercata ed ostentata eleganza estetica con spruzzi di vomito, portando in scena una distruzione a dir poco esilarante prima ancora che rivoltante.
Con il terzo capitolo, il naufragio sull'isola, la descrizione lascia lo spazio alla disanima dell'equilibrio del potere, in una contro-metafora non originale, ma estremamente forte.



Il sistema sociale preesistente non viene distrutto, ma ribaltato. Non siamo dalle parti di un ritorno allo Stato di Natura stile "Il Signore delle Mosche", quanto di una rivincita sociale à la "Travolti da un insolito destino nell'azzuro mare di agosto": i ricchi si scoprono incapaci, a dettare le regole è il più forte, ossia l'ex donna delle pulizie Abigail (Dolly De Leon); il che porta alla costituzione di un nuovo ordine sociale dove tutti sono pur sempre subordinati, ma questa volta a chi può effettivamente garantirne la sopravvivenza; il quale, a sua volta, si fregia di tutti i privilegi possibili, dalla porzione di cibo maggiore al sesso, il dominio sul corpo altrui questa volta incarnato da un maschio ulteriormente e definitivamente demascolinizzato; l'intento di Östlund è cristallino, ossia quello di dare una disanima del tutto anti-manichea che illustri come la sbruffonaggine sia propria dell'essere umano in generale, a prescindere dalla sua provenienza e che, di conseguenza, sia connaturata allo status dominante.



Se nel racconto metaforico, pur non originale, funziona a dovere, "Triangle of Sadness" si configura purtroppo anche come il più fulgido di ciò che il compianto Jean-Luc Godard definiva "film privo di stile"; la messa in scena, pur pulita e a tratti ricercata, è anche anonima, priva di guizzi e totalmente conforme a quell'estetica "europea" propria di tanto cinema d'autore da almeno un ventennio a questa parte, fregiandosi di silenzi, un montaggio secco, pochissimi movimenti di macchina, come a voler creare un'atmosfera ieratica e lugubre in un contrappunto ironico ad una storia grottesca, la quale tuttavia fa scadere il tutto nell'anonimo piuttosto che conferirgli un'effettiva nota originale.
Pur riuscito ed importante all'interno della filmografia dell'autore, resta così un'opera sicuramente interessante, ma non il capolavoro che in tanti hanno pur acclamato.

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