di Maria Schrader.
con: Zoe Kazan, Carey Mulligan, Patricia Clarkson, Andre Braugher, Jennifer Ehle, Emma O'Connor, Adam Shapiro, Tom Pelphrey, Andre Braugher, Frank Wood, Ashley Judd.
Drammatico/Cronaca
Usa 2022
Il fatto che il movimento #metoo si sia trasformato in una glorificata caccia alle streghe e che sia finito per diventare l'esatto opposto di quell'ideale di giustizia sociale che inizialmente rappresentava non deve stupire. Viviamo pur sempre in un'epoca caratterizzata dalla strumentalizzazione, dall'impegno di pura facciata e dalla rabbia sociale usata per soli fini personali, dove il senso di giustizia civile spesso viene usato solo sfogare i bassi istinti a spese di chi si reputa, non importa se a torto o a ragione, colpevole di qualche crimine o anche solo di una condotta vagamente disdicevole.
Un film come "She said" appare quindi drammaticamente necessario; ciò sia al fine di ricordare al pubblico come quel movimento sia iniziato, come quei crimini che perseguiva fossero tanto drammatici quanto effettivi, sia e forse soprattutto per far capire l'effettivo senso di giustizia che ne ha guidato la concezione.
Seguendo in modo pedissequo il libro omonimo a cura di Jodi Kantor e Megan Twohey (che su schermo hanno il volto rispettivamente di Zoe Kazan e Carey Mulligan), "She said" descrive l'evolversi delle investigazioni del duo di giornaliste del New York Times sulle accuse di molestie sessuali mosse contro Harvey Weinstein nel corso di quasi vent'anni. Iniziativa che in realtà trova l'incipit a seguito di un'inchiesta simile che aveva coinvolto qualche anno prima niente meno che Donald Trump, nonché il quasi coevo scandalo di Fox News che già "Bombshell" aveva portato su schermo.
Il film di Maria Schrader si concentra totalmente sulle azioni di Weinstein e prende le mosse dalle dichiarazioni di Rose McGowan, che per prima ne denunciò gli abusi solo per essere immediatamente "silenziata".
L'impianto è quello del più classico film di cronaca, sullo stile di "The Post" e "Il Caso Spotlight": la vita delle due protagoniste resta sempre sullo sfondo, così come la loro reale intenzione dietro l'avvio dell'inchiesta. Quel che conta sono i fatti, le storie delle vittime.
La ricostruzione degli stessi avviene in modo certosino e la messa in scena è pudica: sebbene Gwyneth Paltrow abbia acconsentito a collaborare, non viene mai mostrata in volto, così come la McGowan. L'unica star coinvolta nello scandalo che ha un ruolo attivo è Ashley Judd, che per sua stessa richiesta ha voluto essere coinvolta in modo più diretto.
Il quadro che ne emerge è un atto d'accusa diretto verso un uomo che ha abusato della sua posizione in modo rivoltante, che ha usato e gettato via delle persone per il proprio appagamento e che ha spesso e volentieri distrutto intere vite per i propri capricci. E l'accusa viene rivolta tanto a lui, quanto a quel sistema che gli ha sempre permesso di farla franca, nel quale rientra lo stesso New York Times, che già nel 2004 era alle soglie di denunciare i fatti ma ha poi deciso all'ultimo momento di rimanere inerte. E anche verso quella giustizia che ha spesso e volentieri chiuso gli occhi davanti alle denunce, anche quando raccolte da altre donne.
E' quindi quasi obbligatorio che la mente dietro tutta l'operazione della trasposizione filmica sia Brad Pitt, proprio lui che non solo era a conoscenza dei "segreti di Pulcinella" riguardanti la condotta di Weinstein, ma che ne era stato coinvolto in maniera diretta quando, negli anni '90, aveva intrecciato una relazione romantica con la Paltrow, oltre che con l'ex consorte Angelina Jolie, anch'ella tra le vittime di Weinstein. Impossibilitato a parlarne pubblicamente per anni, si è così preso una sorta di rivincita morale.
Da un punto di vista strettamente filmico, "She Said" gioca purtroppo sempre sul sicuro, con una costruzione ultra-classica che non devia di un millimetro dai canoni dei film-inchiesta americani. E' da lodare la sola capacità di riuscire a costruire in modo sempre diverso quella che è praticamente sempre la medesima scena, con una delle due protagoniste impegnate in una conversazione, spesso solo telefonica, con una delle vittime o dei testimoni; ma al di là di questo, regia e script non corrono rischi di sorta.
Pur solido e ben condotto, alla fine "She said" verrà ricordato, purtroppo, solo per l'indicibile flop che ha generato: costato circa 32 milioni di dollari, ne ha incassati poco più di 13 in tutto il mondo, di cui neanche 2,5 negli Stati Uniti. Pur ottenendo oltre 30 nomination e un paio di vittorie a vari festival, non ha avuto nessun riconoscimento né ai Golden Globes, tantomeno agli imminenti Oscar. Per di più, nessuno ha voluto venderlo come "il film che potrebbe cambiare la vita delle giovani donne" o "un manifesto sull'emancipazione femminile". Non sono state organizzate proiezioni speciali per le scuole, né biglietti a prezzo agevolato per permettere al pubblico meno abbiente di guardalo. A differenza di film "impegnati" del calibro di "Black Panther" e "Captain Marvel".
Un fiasco immeritato ed un oblio praticamente programmato che costituiscono l'ennesima testimonianza di come a Hollywood l'impegno sia solo una moda; e di come, in generale, talvolta l'importanza sociale di un film non venga riconosciuta neanche da chi, giusto qualche anno prima, gridava allo scandalo dinanzi agli eventi che racconta.
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