giovedì 31 agosto 2023

Avere vent'anni

di Ferdinando di Leo.

con: Gloria Guida, Lilli Carati, Ray Lovelock, Vincenzo Crocitti, Giorgio Bracardi, Leopoldo Mastelloni, Carmelo Reale, Vittorio Caprioli, Serena Bennato, Licinia Lentini, Daniela Doria.

Drammatico/Erotico

Italia 1978
















---CONTIENE SPOILER---

Se si pensa al tema dell'emancipazione femminile e della correlativa libertà sessuale per la donna all'interno del cinema italiano, gli esempi che vengono in mente sono davvero pochi, sia che si tenga in considerazione il "cinema" nostrano degli ultimi trent'anni, sia che si decida di tornare indietro alle decadi nelle quali la stagione cinematografica italiana regalava opere originali e prive di compromessi.
L'esempio più fulgido, tutt'oggi, è il cult di Fernando Di Leo "Avere vent'anni", uno dei primi e pochi film a porre al centro della narrazione la donna, le sue esigenze, le sue voglie e la relativa importanza senza paura di offendere, prendendo posizioni che tutt'oggi, anche al netto del veterofemminismo woke imperante, possono sembrare scomode. Tanto che persino all'epoca il film non ebbe certo vita facile.



L'idea del film arriva a Di Leo sul solco di una necessità impellente, ossia quello di dissipare le polemiche di misoginia che ammantano il suo cinema; proprio quel cinema che con "Brucia Ragazzo, Brucia" nel 1969, ossia in piena Rivoluzione Sessuale in corso, presentava figure femminili forti e sessualmente attive che concupivano e sottomettevano il maschio di turno. Pur tuttavia, fu il suo lavoro nel poliziottesco che attirò le ire di critica e intellettuali, con quelle donne-oggetto che i gangster si passavano come trastulli, spesso seminude e impegnate in attività pruriginose, come l'ormai mitica go-go dance di Barbara Bouchet in "Milano Calibro 9"; alle quali di Leo rispose, anni dopo e poco prima della sua morte, affermando come nel contesto criminale, la donna poteva essere solo oggetto sessuale e nulla più.
"Avere vent'anni" doveva sfatare questo mito e in realtà ci riesce appieno, ma solo se rivisto oggi.
Finito il film, le cui aspettative commerciali erano alte vista la presenza delle divette Gloria Guida e Lilli Carati, vede il buio della sala passando indenne per le maglie della censura della DC, ma non convince il pubblico, il quale diserta. La colpa è, secondo il produttore Vittorio Squillante, di quel finale deprimente, nel quale le due belle ragazze e sogno erotico degli avventori vengono umiliate, violentate e uccise.
Tempo qualche mese e il film torna al montaggio, viene girato un nuovo finale alla bene e meglio, che conclude le avventure delle due protagoniste in modo allegro, il quale fa di conseguenza perdere di significato a tutta la storia, ma tant'è. Tornato in sala, è di nuovo un mezzo flop, visto che i guadagni alla fine sono al di sotto delle aspettative.
Negli anni '80 arriva poi un terzo montaggio, ad opera della Kineo Video, la quale riprende il montaggio americano del film, ridoppia tutti i dialoghi cambiandone radicalmente i contenuti e ripristina il finale originale, ma solo in parte, con le sirene della polizia che interrompono lo stupro. Il tutto senza il consenso di Di Leo, ovviamente.
La versione integrale del film, la sola che valga la pena di vedere, torna ad essere disponibile solo negli anni 2000 grazie al DVD della RAROVideo e di Nocturno, ad oggi essenziale per la visione.
E "Avere vent'anni", pur al netto dei vistosi e grossi limiti di scrittura, rappresenta tutt'oggi una visione interessante.




Roma, fine anni '70. Tina (Lilli Carati) e Lia (Gloria Guida) sono due ventenni spiantate, che alla fine dell'estate si conoscono ad un raduno hippie. Senza un soldo, raggiungono la comune del Nazariota (Vittorio Caprioli) per trovare un posto nel quale vivere e per soddisfare le proprie voglie, costantemente castrate.




Travestito da spaccato generazionale, "Avere vent'anni" è in realtà un'opera di pancia sulla sessualità femminile, sulla necessità per la donna di affermarsi nel campo dei sensi, su quel "diritto all'orgasmo" tanto propagandato quanto negato nei fatti, pur in un paese che ha vissuto la Rivoluzione Sessuale.
Una rivoluzione oramai vecchia di dieci anni e che non sembra aver lasciato effetto duraturo. E' vero, le donne si sono emanciapate, ma questo non garantisce loro una effettiva libertà.
Lia e Tina sono così due esponenti di una generazione alla quale tutto viene concesso, ma solo in teoria, due libertine che vivono il sesso in modo salutare e gioioso, per questo scambiate per prostitute in una società dove la soddisfazione dei sensi è ancora un tabù.




Nell'Italia di "Avere vent'anni" il sesso, in pratica, non esiste. Pur rientrando nella categoria del "sexploitation", l'opera di Di Leo è del tutto antitetica ai famosi "chiappa e spada" che spesso la Guida e la Carati frequentavano: non ci sono uomini di mezza età allupati, né giovanotti in cerca di una facile preda da portare a letto e le due sono l'oggetto del desiderio solo in maniera occasionale e circostanziata. Viceversa, in un'inversione dei ruoli totali, sono loro a ricercare il piacere, ad inseguire i maschi da portare a letto e a finire in bianco. Tra le due, Tina è la più spregiudicata, plasmata dalla fisicità piccante della Carati, è una ragazza "giovane, bella e arrabbiata", la cui rabbia deriva soprattutto dalla frustrazione sessuale, figlia com'è di una classe proletaria dove il denaro conta più di tutto e immersa in una società borghese che le nega anche la più basilare delle soddisfazioni. 
Lia, d'altro canto, è una bellezza angelica e talvolta persino materna, incarnata da quella Gloria Guida che potrebbe davvero ambire al titolo di attrice nostrana più genuinamente bella degli anni '70 (con buona pace delle pur bellissime Edwige Fenech e Barbara Bouchet), vive una sessualità più complessa: figlia di nessuno, orfana cresciuta in un orfanotrofio freddo e iniziata alla bisessualità da una padrona infame, vive il lesbismo mai come una colpa, ma in modo del tutto naturale. Ed è nel rapporto con l'omosessualità che Di Leo sembra voler intessere un discorso interessante, ma in parte incompiuto.




Nell'Italia qui ritratta, gli omossessuali sono perfettamente integrati nel tessuto sociale e non hanno neanhe bisogno di dissimulare il loro orientamento sessuale. Lo si vede nella scena del bar, con il cassiere-padrone palesemente effeminato e mai preso a male parole dal cameriere che redarguisce, neanche alle sue spalle; e prima ancora in una delle scene iniziali, quando le due protagoniste, mentre fanno l'autostop, vengono avvicinate da una lesbica al volante di un'auto elegante, esponente della classe alto-borghese con tanto di giovane amante al fianco. Un ritratto veritiero e anche a suo modo provocatorio, ma che finisce per lasciare il tempo che trova senza mai diventare parte integrante della narrazione, con la questione della "borghesizzazione degli omossessuali" solo abbozzata.




La narrazione si concentra altresì totalmente sulla questione sessuale e sulle macerie di una sessualità che oramai sembra inesistente in un mondo che ha ottenuto la liberazione dei costumi e che ora non sa cosa farsene. Gli uomini in particolare pare abbiano sostituito la libido con la tossicodipendenza, preferendo lo sballo autodistruttivo alla costruttiva pulsione carnale, da cui il personaggio di Rico (Ray Lovelock) e degli strafatti che occupano la camerata, accompagnati e contrappuntati dall'ascetico Argiumas (Leopoldo Mastelloni), intento a liberarsi da ogni catena della carne, vero e proprio rottame degli estremismi proto- New Age degli anni della controcultura, oltre che dal professore, più interessato al contenuto dell'enciclopedia che al corpo della Carati. 
Persino il luogo della comune, in quegli anni come tutt'oggi visto dallo spettatore comune come alcova di piaceri, viene descritto come l'ultima conquista del capitalismo, dove i membri sono costretti a lavorare per sopravvivere e l'amore libero è praticamente inesistente, se non che per scopo di lucro.
Quando il sesso fa capolino, esso è privo di gioia, un atto da consumare in un lampo per poi passare oltre, come nella scena dell'orgia tra le due protagoniste e gli avventori che le "comprano" dal Nazariota, che negano loro il piacere e per i quali il piacere è un rito puramente meccanico, come andare in bagno o starnutire. E anche quando è una donna ad essere interessata ad avere un rapporto, come nel caso dell'avvenente borghese con la quale si interfaccia Lia, il sesso è strumento di dominio, atto di acquisto di una pulsione oltre che di una persona, privo di passione e per questo umiliante.



Il ricorso al sesso omosessuale, pur in assenza di un'inclinazione in tale senso da parte del personaggio di Tina, è quindi una necessità rivolta a soddisfare quella pulsione che, pur socialmente e culturalmente riconosciuta, sembra essere stata alienata dall'intero corpo sociale, a prescindere dal sesso e dal ceto di appartenenza.
Pur tuttavia, Di Leo mette al contempo alla berlina anche quelle estremiste femministe (antenate delle odierne veterofemministe) le quali disdegnano il maschio in tutto le sue declinazioni: per lui, benché l'omoerotismo possa essere un'opzione sempre praticabile oltre che una realtà assolutamente non deprecabile, è l'unione tra uomo e donna a rappresentare l'appagamento definitivo; il che non viene raccontato come affermazione di potenza del mascolino, quanto come forma di empatia verso quelle donne che vivono la loro sessualità in modo ordinario, eterosessuali che reclamano giustamente le proprie necessità




Se l'appagamento sessuale è negato e superato, la visione di due donne sessualmente attive ed esuberanti è del tutto insostenibile in una civiltà del genere. Da cui il celebre finale originale, che completa perfettamente il cerchio della narrazione, con la violenza che si sostituisce alla penetrazione e la morte usata al posto di un eros sepolto sotto le tonnellate di cinismo spicciolo, in un vero e proprio rifacimento della sequenza clou de "La Fontana della Vergine" e ovviamente del più prossimo "L'Ultima Casa a Sinistra".




Se a Di Leo non mancano le idee o la voglia di provocare, è la poca profondità del suo sguardo ad impedire ad "Avere vent'anni" di essere del tutto riuscito. La parabola delle due belle protagoniste è chiara e completa, ma decisamente monche sono alcune delle sottotrame e il trattamento delle relative tematiche; oltre a quella relativa all'omosessualità nella società moderna, è quella relativa al personaggio di Rico a deludere, con questo personaggio emblema di una classe intellettuale che ha deciso di autodistruggersi il quale resta sempre sullo sfondo e non ha catarsi alcuna; oltre che il ritratto del personaggio di Lia, la quale risulta sottoutilizzata pur in un racconto dove dovrebbe essere la coprotagonista.
Pur al netto della sua incompiutezza, il cult di De Leo è lo stesso molto più interessante di tante altre pellicole sexploitation solo travestite da opere intellettuali dell'epoca; basti guardare in merito il giustamente dimenticato "Il Solco di Pesca", sempre con la Guida, molto più ambizioso e decisamente più disastroso, rappresentando ancora oggi una visione quasi obbligata per comprendere la società italiana che fu e che è.

Nessun commento:

Posta un commento