con: Aisling Franciosi, Sam Caflin, Baykall Ganambarr, Damon Herriman, Harry Greenwood, Ewen Leslie, Michael Sheasbie.
Australia, Usa, Canada 2018
Presentato tra (ingiusti) insulti gratuiti e premi più dovuti che meritati a Venezia 75, "The Nightingale" è decisamente una pellicola di rottura, che non vuole fare compromessi e che si può solo (in teoria) amare o odiare visceralmente.
Polarizzazione dovuta non tanto agli argomenti trattati, ossia la sottomissione, la misoginia e la barbara violenza del maschio bianco, quanto per la sua volontà di trincerarsi dietro un racconto secco, privo di qualsiasi sfaccettatura (o quantomeno dotato di ben poche sfaccettature), che urla in faccia le proprie tesi allo spettatore, senza ritegno né vergogna anche quando le ritratta.
E', di conseguenza, facile tacciare Jennifer Kent di faciloneria, oltre che di quel manicheismo che la avvicina più ai Social Justice Warriors che al vero femminismo; eppure, "The Nightingale" è dotato di una forza non comune e riesce, sia pure nel modo più semplicistico possibile, a smuovere.
La Kent rinchiude i personaggi in fotogrammi in 4:3, inquadrature serrate che negano una visione d'insieme, lasciando i singoli personaggi isolati in una zona negativa dalla quale si dibattono senza mai riuscire a liberarsi.
Forma che racchiude la sostanza di una storia che definire cupa sarebbe eufemistico: nella Australia del colonialismo, Clare (Aisling Franciosi) è una giovane donna di origini irlandesi condannata all'esilio, la quale è sottomessa, sia fisicamente che mentalmente, allo spietato capitano Hawkins (Claflin), giovane ufficiale frustato dal mancato avanzamento di carriera. Usata come "usignolo" per sollazzare le truppe, Clare viene ripetutamente stuprata da Hawkins, finché, una sera, suo marito Aidan (Sheasbie) non decide di ribellarsi, finendo ucciso per mano di Hawkins, il quale causa anche la morte della loro piccola figlia. Annegando nel dolore fisico e spirituale, Clare decide di attuare la propria vendetta contro il capitano, inseguendolo per i boschi, aiutata unicamente dal tracker aborigeno Billy (Ganambarr).
Una storia di violenza e sopraffazione, quella imbastita dalla Kent, dove la divisione tra vittime e carnefici è sempre netta; la donna è, in primis, oggetto da sfruttare e sottomettere, prigioniera di nome e di fatto del maschio, il quale la usa unicamente per soddisfare i propri bisogni. Al suo pari, il nero, quell'aborigeno che tutt'oggi risulta schiacciato dal colonizzatore bianco, è soggetto da sfruttare, deridere e distruggere, prima ideologicamente e poi fisicamente.
La violenza, in "The Nightingale" è quasi sempre esplicita e brutale: corpi bucati da rudimentali lance, colpi di pistola che forano le carni in modo esplicito e, prima ancora, grida disumane che impongono la sottomissione al dominatore. La Kent si tira indietro solo in due occasioni: la prima, più condivisibile, è la morte del bambino aspirante soldato, ucciso per puro sollazzo una volta capita l'impossibilità di irregimentarlo al pari degli altri sottoposti. La seconda, più ipocrita, è l'uccisione del canguro, unico strumento di sopravvivenza; e non si capisce perché si dovrebbe essere più dignitosi verso la morte di un animale che di un neonato.
Presa di posizione che, si diceva, rende semplice il lavoro alla Kent, la quale riesce a disturbare senza mai davvero infastidire (mai sia far riflettere gli animalisti sui bisogni dell'essere umano...), la quale costruisce la storia come un lungo inseguimento all'interno di spazi angusti, tutti uguali, una selva mentale prima ancora che fisica.
Se il ribaltamento di ruolo tra vittima e carnefice si attua per i primi 3/4 del racconto, con la protagonista che uccide spietatamente almeno uno dei suoi aguzzini, nel finale la Kent sembra perdersi rincorrendo una forma di moralità aliena al resto del racconto. Non si capisce come mai, messa di fronte alla fonte di tutti i suoi mali, la protagonista non riesca ad andare in fondo con il suo intento vendicativo, limitandosi ad imbastire un discorsetto moralistico sulla cattiveria gratuita e lasciando il lavoro sporco all'aborigeno, ossia al maschio, quasi a voler confinare la violenza ad una dimensione prettamente maschile, in un rigurgito di moralismo manicheo del tutto indigesto e indifendibile.
Decisamente più riuscita e condivisibile è invece la trovata di far aiutare i protagonisti, nel momento del bisogno, da un anziano bianco, quasi l'incarnazione del patriarcato riletto in chiave positiva, che allontana, in parte, le posizioni della Kent dalla sfacciata e stupita dialettica veterofemminista anglofona degli ultimi anni.
Nel contraddire le proprie posizioni e ricercando una dimensione sessuata e sessista nella violenza, la Kent finisce per inciampare nelle trappole più ovvie di una morale in fondo falsa. Se il grido accusatore verso una razza che ha fatto della sopraffazione lo strumento dello propria affermazione risulta veritiero, anche storicamente, più ignobile è l'affermazione di una figura femminile vista come unica depositaria della ragione, sia essa affermata tramite la violenza, sia essa decantata a belle parole. Non tanto e non solo per la contraddizione mostruosa che una tale affermazione porta in sé, quanto anche e sopratutto per la convenienza retorica che genera: bello e semplice è dire che la donna ha sempre ragione, anche quando rifugge codardamente dai propri propositi.
Contraddizioni retoriche a parte, "The Nightingale" ha comunque dalla sua una forza espressiva inusitata e viscerale, in grado di fare leva facilmente sul ventre dello spettatore nel migliore dei modi; un racconto cupo e forte che prova, comunque, il talento della sua autrice.
Nessun commento:
Posta un commento