mercoledì 15 gennaio 2020

Hammamet

di Gianni Amelio.

con: Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Claudia Gerini, Renato Carpentieri, Silvia Cohen.

Biografico

Italia 2020

















Se c'è un tratto essenziale in "Hammamet" è quello di riportare l'attenzione su di un politico che sembra scomparso dalla coscienza collettiva; Bettino Craxi, odiato, vituperato e ridicolizzato in primis, solo per poi essere rivalutato dalla propaganda berlusconiana nel decennio scorso, sino a scomparire totalmente dai discorsi dei politici, fatta eccezione per un recente pamphlet di Renzi, che ne riprende sfacciatamente intere dichiarazioni.
Da Gianni Amelio, autore da sempre sensibile e intelligente, ci si aspettava una pellicola coraggiosa e scomoda; e, in un certo senso, "Hammamet" lo è... ma per i motivi sbagliati: è un tentativo, maldestro e autoassolutorio, di riabilitare la figura del suo protagonista, finendo per scadere in una retorica indifendibile.



Il prologo, in tal senso, è menzoniero: assistiamo alla ricostruzione del trionfo di Craxi, eletto segretario del partito, giustapposto al pentimento di uno dei suoi seguaci e amici, il quale sembra prevedere la stagione di Mani Pulite e si tira fuori dal malaffare; un confronto tra un politico rampante e gradasso contro un uomo che ha ritrovato l'onestà, un contrappunto volto a svelare il marcio che si cela sotto la coltre di egoismo del leader, al quale però seguono 120 minuti durante i quali Amelio fa un vero e proprio santino del suo protagonista.
La morale è semplice: Craxi era solo uno dei tanti lestofanti, né migliore, nè peggiore; quindi, secondo una classica retorica populista, se tutti rubano nessuno è colpevole; la sua diviene così una figura quasi cristologica, un agnello sacrificale esiliato (si dica mai che era latitante) che si fa carico dei peccati di un'intera classe dirigente; un uomo debole, afflitto dalla malattia nel corpo e nello spirito, contro cui il mondo sembra accanirsi. In questo panegirico sfrenato, persino la figura del ragazzo, figlio dell'ex amico e collega, finisce per ricredersi, per recedere dagli intenti omicidi per divenire testimone e complice affascinato dalla grandezza della figura dell'ex leader.




In una messa in scena volutamente vaga e simbolica, si alternano così diversi personaggi del passato del leader, tutti trasfigurati in maschere che ne celano l'identità piuttosto che risaltarne il ruolo: un'amante ancora innamorata (Moana? Ania Pieroni?), una figlia ribattezzata "Anita" come la donna di Garibaldi, un figlio privo di nome (Bobo) che si dibatte per avere l'amore del padre e un ex avversario politico che torna quasi a riconciliarsi con l'avversario. Il ruolo del "presidente", così come viene ribattezzato, è sempre lo stesso: un uomo triste e solo, stanco, divorato dal malessere fisico, sulla soglia della morte, eppure incredibilmente dignitoso, una figura tragica nella sua sconfitta totale, che annega nella solitudine imposta dagli "altri", dai giudici divoratori e da quegli ex alleati (Berlusconi, unico citato esplicitamente) che lo hanno abbandonato.




Una rilettura della persona ai limiti del vomitevole, perfettamente compiaciuta nella sua posizione, che dimentica la dimensione politica per focalizzarsi, codardamente, su quella umana: se il politico è stato un gradasso e corrotto, bisogna perdonare l'uomo, la figura sofferente e patetica; che poi questi non si sia mai davvero pentito delle sottrazioni economiche è un mero dettaglio; che abbia aperto la strada ad un'intera classe dirigente di ladri, corrotti e collusi, è un altro dettaglio di poco conto; che abbia esaltato la retorica del leader supremo e del relativo culto, in un rigurgito di ideologie para-fasciste, non conta ancora. Il tutto perfettamente confezionato in un'opera che, diabolicamente, è stata prodotta con i capitali pubblici della RAI, ovverosia soldi pubblici sottratti alla cittadinanza per produrre un ritratto che vuole riscattare la figura di un politico che sottraeva soldi pubblici per scopi personali. C'è davvero poco da aggiungere.




Se il tentativo di riabilitazione, maldestro e ruffiano, fallisce nel convincere, a salvare la visione sono unicamente il mestiere della regia e la straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino, che fa riviere Craxi su schermo annullando la linea di demarcazione tra attore e personaggio, in una performance che da sola meriterebbe tutti i premi possibili, fin troppo lussuosa per un compiaciuto panegirico.

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