di Sergio Corbucci.
con: Franco Nero, Josè Bòdalo, Loredana Nusciak, Angel Alvarez, Eduardo Fajango, Gino Pernice, Simòn Arriaga.
Spaghetti Western
Italia, Spagna 1966
Sergio Leone ha creato lo spaghetti western con tutti i suoi crismi; eppure non è stato lui a perfezionarlo, a virarlo verso quella violenza esplicita che ne lo ha reso celebre. Merito invece di Sergio Corbucci ed il suo "Django", che stilizza ulteriormente personaggi e trovate di sceneggiatura aumentando a dismisura il tasso di sadismo. Formula che prende le mosse da Leone, dal cui stile tornano anche l'occhio per il montaggio, le zommate e la predilezione di una composizione pittorica dell'inquadratura, ma che viene esasperata sino a diventare altro, un nuovo DNA del genere che lo renderà ancora più celebre.
Il successo di "Django" fu all'epoca enorme ed il suo lascito incalcolabile; basti pensare che, oltre al celebre "Django Unchained" di Tarantino o al "Sukiyaki Western Django" di Takashi Miike, già immediatamente dopo la sua uscita nelle sale fioccarono i titoli apocrifi, che si impadronivano del celebre nome del protagonista per vendere al meglio prodotti che con lo stesso non avevano nulla a che fare; non per nulla, il quello di Franco Nero è tutt'oggi uno dei volti più celebri del western all'italiana, scalzato dal podio solo a quelli leoniani di Clint Eastwood e Lee Van Cleef.
Ma al di là dell'importanza storica e del suo lascito, quanto c'è di davvero riuscito nel film di Corbucci? Non proprio tutto.
Al di là del modo in cui Corbucci ridisegna lo spaghetti western e lo devia verso l'estremo, c'è davvero poco in "Django" che valga la pena di essere ricordato. A cominciare dalla trama, derivata in modo imbarazzante da quella di "Per un Pugno di Dollari": al confine con il Messico, il pistolero di nero vestito si trova in mezzo ad una lotta di potere tra un ex generale sudista razzista ed un rivoluzionario messicano, ovverosia due fazioni in lotta che verranno annichilite dalla sua azione, proprio come avveniva nel film di Leone.
Lo stesso Django è ricalcato sullo stereotipo del pistolero senza nome: laconico fino quasi al silenzio, veloce di mano, violento per vocazione, con uno sguardo glaciale e pronto a tutto pur di perseguire i suoi obiettivi. La differenza con il personaggio di Clint Eastwood risiede in fondo solo nella caratterizzazione estetica e nel fatto che Django ha una vendetta da compiere, nulla più.
La sceneggiatura non è neanche scevra da buchi e nonsense: dalla scelta di far tradire il colonnello Hugo solo per far procedere la storia verso il terzo atto ad un finale sin troppo veloce e ludico, passando per la scelta di caratterizzare Jackson come una sorta di generale del ku klux klan anti-messicano... che affida i propri risparmi proprio ai tanto odiati messicani.
La regia di Corbucci, neanche a dirlo, non ha la raffinatezza di quella di Leone; a momenti ispirati, con inquadrature ricercatissime, si affianca una costruzione della scena talvolta sciatta, data da un montaggio un pò casuale o da movimenti di macchina frettolosi, con campi lunghi inutili.
A rendere "Django" memorabile resta così solo l'estetica; a partire da quella del protagonista, pistolero-becchino che trascina una bara contenente una mitragliatrice e della dinamite, ammantato in un cappotto ed un cappello nero ed agghindato con pantaloni dell'esercito yankee, il suo è un look che farà scuola, tanto da essere ripreso persino da John Carpenter per il suo Snake Plissken.
Ancora più riuscito è il lavoro sugli ambienti, quanto mai sporchi e decadenti. La città senza nome in cui il pistolero compie la sua vendetta è immersa nel fango perenne, sembra una città fantasma, abitata da poche anime perdute. Un luogo dove la violenza raggiunge vette inusitate, con litri di sangue versato, orecchie mozzate e mani fracassate in segno di punizione.
Una violenza della quale la prima vittima è una donna, la bella mezzosangue innamoratasi del pistolero, che ha si un ruolo ancillare nella vicenda, ma che rappresenta uno dei pochi esempi di personaggio femminile di rilievo in un genere altrimenti totalmente maschile.
"Django" va di conseguenza apprezzato più per il suo lascito che per il suo effettivo valore; resta uno spaghetti western divertente, ma poco riuscito, interessante ma a tratti sciatto. Corbucci, dal canto suo, riuscirà a fare molto meglio con il bellissimo "Il Grande Silenzio".
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