martedì 11 luglio 2023

Whore (Puttana)

Whore

di Kenn Russell.

con: Theresa Russell, Benjamin Mouton, Antonio Fargas, Daniel Quinn, Sanjay Chandani, Jason Saucier, Michael Crabtree, Amanda Goddwin, Ginger Lynn, Jack Nance, Danny Trejo.

Drammatico

Usa, Regno Unito 1991












Se si pensa alla rappresentazione della prostituzione al cinema, sono pochi i film che vengono davvero alla mente. Anche perché quello che spesso viene ignorato è che a partire dalla metà degli anni '80 nacque un vero e proprio filone nel cinema americano che ritraeva il "mestiere più vecchio del mondo" in modo diretto e crudo. 
Apripista di questa tendenza è il piccolo cult "Streetwalkin'" (in Italia ribattezzato con il semplice titolo "Prostituzione"), prodotto da Roger Corman e scritto e diretto da Joan Freeman, che con piglio quasi neorealistico porta lo spettatore tra le strade di New York, negli squallidi ambienti del meretricio, seguendo le disavventure di una giovanissima passeggiatrice intrepretata da una Melissa Leo semiersordiente.
Il successo di quel piccolo film fu immediato, anche perché molte vere prostitute accorsero a vedere un'opera che ritraeva il lo mondo in modo veritiero e impietoso. Da cui la nascita del filone, che però virò subito all'exploitation spicciola.
Le cose cambiano nel 1990 con l'uscita del megasuccesso "Pretty Woman", il quale ritraeva quel mondo in modo pulito, sanificandone gli aspetti più sgradevoli per piacere al grande pubblico; cosa che ha suscitato le ire di non poca gente, primi fra tutti coloro i quali frequentavano quegli ambienti con il loro cinema. E tra questi il più iracondo fu Ken Russell, il quale, pur avendo toccato il tema della prostituzione solo di striscio nel corso della sua carriera, uscì devastato dalla visione di una prostituta simpatica e allegra che viene salvata da un bel principe azzurro.
In risposta, Russell decide di girare un vero film sulla prostituzione, che si insinuasse in quel filone inaugurato dalla Freeman e da Corman evitandone però gli eccessi di compiacimento degli ultimi esponenti. Trova una base nel monologo teatrale "Bondage" di David Hines, autore che aveva avuto anche una carriera come attore per poi dedicarsi alla drammaturgia; e trova poi in Theresa Russell una protagonista espressiva e sensuale, creando un'opera tanto convenzionale quanto riuscita.



Liz è una prostituta in fuga dal proprio magnaccia Blake (Benjamin Mouton). Vagabondano per la città, incontra vari personaggi, tra cui lo strambo "Rasta" (Antonio Fargas) e rimugina sulla sua condizione attuale e sul suo passato.
Per comprendere appieno "Whore" bisogna tenere conto non solo del suo status di "reazione", ma anche di come si contrappore all'altro film con il quale Russell ha toccato in modo diretto il tema del sesso e in modo indiretto quello della prostituzione, ossia "China Blue".
Liz e China Blue sono due opposti inconciliabili. Quest'ultima vende la vendita del proprio corpo come forma di affermazione individuale in un impeto edonistico, mentre la prima si ritrova suo malgrado a vendersi pur di campare. Cambia anche il contesto nel quale le due figure si muovono: benché separate da giusto un pugno di anni, le città dove le due donne battono sono agli antipodi, con quella di China Blue a rappresentare un mondo in cui il sesso è ancora pulsione passionale, sublimazione di una necessità emotiva oltre che fisica, mentre quella di Liz è una sorta di fogna nella quale il sesso è anticamera della morte, dove tutti i corpi meno il suo e pochi altri sono vecchi e malati; un mondo dove l'AIDS sembra presente ad ogni angolo (da cui l'agghiacciante scena dell'accoltellamento), pronta ad uccidere chiunque si abbandoni ai sensi.
Se in "China Blue" il sesso è passione (non per nulla il titolo originale è "Crimes of Passion"), in "Whore" esso è uno sfogo, una necessità, una pura azione meccanica.



Laddove l'occhio di Russell scruta in primis la sua protagonista, esso è però altrettanto penetrante verso i suoi clienti, vero e proprio campionario di un'umanità eterogenea e appartenente ad ogni classe sociale. La maggior parte sono rifiuti umani, uomini in cerca di un orgasmo facile che si vergognano di chiedere vera passione alle compagne e che usano le prostitute come ricettacoli delle loro frustrazioni. Tra loro sono in pochi quelli che hanno una vena di umanità, come l'anziano del quale Liz si invaghisce durante i primi anni di attività. E in generale, sono davvero pochi gli uomini che trattano le donne con rispetto, come il professore interpretato da Jack Nance, il giovane ragazzo indiano (che pur prova ad ottenere un rapporto non protetto a più riprese) e il misterioso Rasta, vero e proprio angelo custode della protagonista, sorta di incarnazione di quella bontà che per tutta la sua vita non ha mai trovato.
L'unica forma di amore, Liz la ritrova nel figlioletto sottrattole e nel rapporto con la giovane amica Katie (Elizabeth Morehead), la "lesbica" che la adotta come una sorella e che cerca di sottrarla alla strada, purtroppo invano.




Il centro di tutto resta però sempre Liz, la sua vita, il suo dramma, le sue emozioni e le sue bugie; una donna distrutta dalla vita, quella privata prima ancora che quella di strada, che mente a sé stessa pur di sopportare una situazione sempre pronta a deflagrare; un essere umano che ha perso ogni vera passione, sottrattale dalla professione e le cui emozioni sono nascoste sotto una coltre di cinismo necessario alla propria sopravvivenza psicologica e spirituale. 
Quella di Liz non è una storia di redenzione, riscatto o salvezza, quanto appunto di pura sopravvivenza. Alla fine non abbandona davvero la vita di strada, non ritrova né l'amore del figlio né quello della perduta Katie e persino il salvifico Rasta esce dalla sua vita così come è entrato; Russell sa che il vero nemico in una storia non è un magnaccia misogino, né il sistema che tollera che prostituzione e persino quella misoginia insita nella clientela. Il vero nemico di Liz così come quello di praticamente tutte le moderne schiave bianche è la vita stessa, quel complesso di sventure e relazioni finite male che in un modo o nell'altro portano una ragazza a prostituirsi (ovviamente quando non coartata dall'inizio); l'unica speranza è dunque la speranza stessa, l'aver concluso una pessima giornata ed essere riuscita a chiudere i rapporti con quello sfruttatore che ne avrebbe certamente causato la morte, nulla più. Da qui quel finale risolutivo, ma volutamente monco, dove nulla finisce davvero e gli eventi sono idealmente pronti a ripetersi all'infinito, con la protagonista che esce da un sotterraneo ma potrebbe ben presto ritrovarsi ai margini del tunnel della prima scena.




Lo script elaborato con Deborah Dalton riprende gli elementi essenziali di "Bondage" e ne inserisce alcuni inediti. E', in buona sostanza, un campionario di tutti i luoghi comuni che una storia del genere può presentare, non cercando mai l'originalità, quanto una forma di autenticità narrativa ai limiti del neorealistico, pur rielaborati in una chiave para-teatrale, con l'abbattimento della quarta parere e il coinvolgimento diretto dello spettatore che diventano elementi narrativi chiave. Il risultato è tanto didascalico quanto penetrante e non si riesce davvero a tacciare "Whore" di faciloneria, neanche quando scade (a ben vedere a più riprese) nell'ovvio.
La regia di Russell, d'altro canto, è abilissima nell'inserire elementi di stilizzazione che si contrappongono ad una storia verista: laddove tutto il film è girato in location, riuscendo a restituire l'autenticità di una metropoli nordamericana sudicia e infestata da personaggi decadenti, molti flashback assumono la forma dei famosi inserti musicali del cinema russelliano, colpendo come sempre per l'inventiva, veri e propri colpi d'occhio d'antan in un periodo storico dove la messa in scena non contemplava licenze simili.



Per quanto pedante e meno graffiante di quanto Russell sperasse, alla fine "Whore" riesce a convincere. Un ritratto crudo e mai compiaciuto di una vita perduta, portato in scena con classe e ottimamente interpretato.


EXTRA

Nei panni di Rasta troviamo l'apprezzato caratterista Antonio Fargas, il che è quasi un inside-joke.



Fargas raggiunge infatti la notorietà negli anni '70 interpretando il mitico magnaccia-informatore Huggy Bear nella serie "Starsky & Hucth". Il suo volto è rimasto per sempre legato al ruolo del pappone, tanto che interpreterà anche il magnaccia violento di "Streetwalkin'" e arriverà persino a parodizzare il personaggio nella simpatica parodia della blaxploitation "I'm gonna git you, sucka!" del 1988, diretta dai fratelli Wayans.



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