mercoledì 19 febbraio 2020

I Vitelloni

di Federico Fellini.

con: Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Leopoldo Trieste, Franco Fabrizi, Riccardo Fellini, Leonora Ruffo, Jean Brochard, Claudia Farrell, Carlo Romano.

Italia, Francia 1953
















Quando "Lo Sceicco Bianco" uscì al cinema, tra le sale deserte e i fischi della critica, nessuno avrebbe puntato una lira sulla carriera di Federico Fellini, il quale, anzi, veniva già dato per spacciato come regista. Fortunatamente, la sorte decise di dargli una seconda occasione, che prese la forma de "I Vitelloni", secondo lungometraggio e incredibile successo, sia di critica che di pubblico, che trasformò Alberto Sordi in una star e consentì a Fellini di vincere il Leone d'Argento alla XIV Mostra del Cinema di Venezia.





Un'opera seconda che ha fatto scuola sin dalle premesse, che vedono il giovane autore narrare in prima persona fatti e personaggi privati; dove, però, a differenza di quanto sarebbe stato fatto da altri in seguito, nulla di quanto portato su schermo è effettivamente vero.
Bisogna sempre tenere conto di come il grande artista riminese si contrappose, quasi in polemica, con la verosomiglianza del cinema neorealista, preferendo un approccio più visionario alla realtà. Quella de "I VItelloni" non è la vera storia della giovinezza di Fellini (così come non lo sarà davvero neanche "Amarcord"), ma è una storia ispirata a quella giovinezza, dove fatti e personaggi vengono rielaborati in modo fantasioso, distrutti e ricreati per divenire più veri del reale, più vicini alla realtà di quanto le loro controparti reali meramente trasposti su schermo potessero essere. Fellini "il gran bugiardo" ha ammesso in prima persona di essersi creato una giovinezza, sottolineando la sua opera come finzione, restando però sempre fedele a quella veridicità che restituisce in modo simbolico, quasi astratto. E, di fatto, i cinque Vitelloni sono personaggi di un'umanità a tratti disarmante.




Cinque giovani uomini letteralmente spiaggiati all'interno di un microcosmo chiuso, un piccolo paese (anch'esso fasullo e simbolico, ricreato cucendo gli esterni di Viterbo, Ostia e Firenze) lontano dal mondo, che vive di piccole gioie e piccoli drammi, dove nulla sembra contare davvero per loro, di certo non le relazioni amorose, rincorse ma mai davvero ricercate, né i rapporti familiari, che anzi talvolta finiscono solo per stritolarli, tantomeno il lavoro, schivato e schifato apertamente. I vitelloni sono degli scansafatiche che vegetano al sole, incapaci di fare qualcosa della loro vita anche e sopratutto perché tutto ciò non interessa loro, persi come sono nelle chiacchere e nelle finte aspettative. Ed ognuno di loro finisce così per essere una facciata del medesimo personaggio.




Fellini delinea questi suoi personaggi di concerto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli; i tre iniettano nel quintetto virtù e sopratutto vizi che rispecchiano non solo i propri, ma anche quelli comuni agli italiani dell'epoca.
Primo fra tutti, Fausto (Franco Fabrizi), il riconosciuto "leader spirituale del gruppo", è un individuo sottilmente disgustoso, ai limiti dell'apertamente stomachevole, un ragazzetto che vede le donne come un passatempo, il quale non si assume mai la responsabilità del suo ruolo di padre, di marito o di adulto, nonostante pretenda il rispetto dagli altri. Un piccolo-grande mostro di egoismo che ha una giusta catarsi solo quando viene messo spalle al muro, percorso da quella violenza educativa che solo un genitore può dispensare, unico viatico per fargli comprendere l'importanza dell'amore e del rispetto che gli altri provano per lui.




Vera e propria nemesi di Fausto è il mite Moraldo (Franco Interlenghi), un vero e proprio spettatore degli eventi, che accompagna di volta in volta l'amico protagonista del singolo segmento sorreggendolo e talvolta guidandolo. Un personaggio che rispecchia il punto di vista più mite del suo autore, quello passivo, che assiste al dipanarsi degli eventi senza riuscire mai ad esserne veramente  al centro. E sarà proprio lui, alla fine, a decidere di fare il grande salto, di abbandonare il paese e le chiacchere sul futuro per prendere questo in mano e realizzarsi; un'azione che arriva solo nel finale, riscattandone il protagonista e facendolo evolvere: il suo punto di vista, alla fine, rispecchia in toto quello dello stesso Fellini, provincialotto di belle speranze che decide di emanciparsi abbandonando gli scanzonati amici; tanto che quell'ultima battuta che recita sul treno in partenza per Roma è doppiata dallo stesso regista, che si immerge totalmente nel suo personaggio.




Altro punto di vista di certo vicino a quello dell'artista è sicuramente quello di Leopoldo, l'autoruncolo di drammoni da camera, incarnato nel volto da perdente di Leopoldo Trieste, che lo rende come un eterno sconfitto, un uomo di sicura ambizione, che lo fa distingue dai coetanei, ma che il destino decide di prendere in giro, calandosi nelle fattezze di un rinomato attore che si diverte a stuzzicarlo solo per ottenerne in cambio i favori; scambio che, ovviamente, spiazza il giovane e ne stronca in definitiva ogni volontà.




Se il personaggio di Riccardo, interpretato dall'omonimo fratello di Fellini, costituisce una sorta di punto di vista interno alla vicenda nonché presenza virtuale dell'autore nella sua stessa opera, di ben altro spessore è l'Alberto interpretato da Sordi, vera e propria maschera tragica calata all'interno di una commedia beffarda.
Alberto è un clown triste, un uomo che cerca di schivare il dolore così come la responsabilità, ma che viene di volta in volta costretto a fronteggiarli, nelle forme dell'abbandono della sorella; un personaggio che si lascia sopraffare dalle emozioni negative sino al punto di sprofondare nella depressione (così come farà il personaggio di Marcello ne "La Dolce Vita"), dalla quale riemerge solo sbeffeggiare il prossimo, ossia quei lavoratori che, asserviti nel bene e nel male alle responsabilità, sono per lui dei falliti che meritano il famoso gesto.




Fellini posa sul suo mondo uno sguardo agrodolce, lo sguardo maturo di chi riguarda al passato sapendo coglierne i lati più simpatici così come quelli che lo sono di meno. Se la descrizione del microcosmo in cui i personaggi si muovono è a tratti acida nel sottolinearne gli aspetti più immaturi e infantili, senza mai davvero arrivare a sbeffeggiarli con vera cattiveria, del tutto feroce è il modo in cui descrive il quintetto di personaggi e le loro pecche, esagerando i toni, gonfiandone i difetti e rendendo i pregi come delle vere e proprie debolezze; Fellini fa a pezzi quasi ogni loro aspetto, mettendone a nudo la codardia, la scarsa intelligenza e la quasi nulla considerazione di sé, il tutto mentre adotta un tono leggero per il racconto, che si dischiude su schermo come una favola sospesa in un'atmosfera rarefatta, magnificamente sottolineata dallo score di Nino Rota.
Una favola dove ciascun personaggio è oscilla costantemente tra il ruolo dell'eroe e quello del mostro, sino a divenire la maschera di un'Italia meschina nella propria piccolezza, pronta a fagocitare quanto di buono possa esserci nella società per omologare tutto e tutti alla mediocrità imperante e, sopratutto, asservita ad un egocentrismo distruttivo che, un po' alla volta, spazza via quanto di buono possa esserci.




Una nazione amara, una società che distrugge quanto c'è di buono per puro spirito di autoaffermazione; conflitto che viene confinato dapprima nella relazione (che oggi definiremo "tossica") tra Fausto e Sandra, dove quest'ultima viene costantemente dileggiata solo perché buona sino all'ingenuità, per poi farla deflagrare addosso e per il tramite degli altri personaggi, i quali, in un modo o nell'altro, finiscono sempre per essere atterriti dagli eventi; persino la fuga di Arnaldo è incorniciata nell'ambito di un processo di presa di coscienza che si avvia con la mera testimonianza e termina con la piena realizzazione di quanto di sbagliato ci sia nella non-vita dei Vitelloni.




Un punto di vista, quello di Fellini, che appartiene a chi ha saputo distanziarsi da uno stile i vita dedito all'autocompiacimento e che riesce ad essere sempre sincero, perché schietto e mai compiaciuto. Abilità che solo i grandi artisti possono vantare.

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