di Sam Peckinpah.
con: James Coburn, Maximillian Schell, James Mason, David Warner, Klaus Löwitsch, Senta Berger, Vadim Glowna, Roger Fritz.
Guerra
Inghilterra/Germania Ovest 1977
Il fatto che un film come "La Croce di Ferro" non venga elogiato o discusso quanto dovrebbe risulta essere un vero mistero, sopratutto se si pensa alla piega che il cinema di guerra avrebbe preso a partire dalla fine degli anni'70. Il piccolo capolavoro di Peckinpah anticipa infatti molte delle tematiche presenti nei war-movie a venire, prima fra tutte la descrizione della guerra come trionfo di una follia anarchica che distrugge i soldati prima su di un piano psicologico che su quello fisico, che di lì a poco sarebbe stato messo nero su bianco da capolavori quali "Apocalypse Now" e "Và e Vedi".
E di cose da dire sul lavoro svolto dal grande cineasta californiano ce ne sono davvero parecchie, denso com'è nei suoi 132 minuti di durata.
Adattando le pagine del romanzo di Will Heinrich, Peckinpah crea una dualità totale tra i personaggi di Steiner (James Coburn) e Stransky (Maximillian Schell); il primo eroe del popolo, coraggioso e attaccato sino alla morte ai suoi camerati, non un soldato, né un semplice sottufficiale, ma un vero e proprio guerriero d'altri tempi, il cui coraggio è sinonimo di correttezza e umanità; Stransky è invece un nobile, tronfio e sin troppo orgoglioso delle proprie origini prussiane, un aristocratico che sottomette con il ricatto i suoi ufficiali, un codardo che non guida i propri uomini in missione, verso i quali non prova alcun sentimento e che mira ad ottenere la croce di ferro del titolo solo per dimostrare il proprio valore all'interno della propria famiglia, come un bambino mandato in collegio.
Steiner è un uomo d'onore, Stransky un vigliacco bardato in un'uniforme che gli permette di fare il buono e cattivo tempo; il loro scontro è totale.
Steiner finisce per rappresentare al contempo sia l'anarchia, sia quel coacervo di ideali che da sempre contraddistinguono l'eroe peckinpaiano; il rifiuto verso l'autorità, sia essa quella del codardo Stransky che quella degli ufficiali a lui più vicini, è netto e fondato sul rifiuto di quella subordinazione gerarchica che permette a questi di decidere vita e morte del prossimo. Al contempo, egli rappresenta quello spirito di cameratismo e di sacrificio comune al vecchio codice d'onore, che, cronologicamente, durante la II Guerra Mondiale non è andato solo perduto e dimenticato, ma del tutto distrutto da una modernità che ha spazzato via quanto c'era di buono nel passato.
Allontanandosi in parte dai suoi schemi abituali, Peckinpah sottolinea la differenza tra i due personaggi anche in un modo inedito nel suo cinema, ossia tramite la dissertazione dell'omosessualità. Per Stransky, l'attrazione che un suo ufficiale prova per il proprio attendente è motivo di vergogna e, per questo, di ricatto, tanto che finisce per usarla per manipolarlo sino alle estreme conseguenze. Di tutt'altra natura è invece il bacio che viene scambiato tra i due camerati di Steiner, in pubblico, una dimostrazione affettiva (che anticipa, di nuovo, quanto farà Nagisa Oshima in "Furyo") non strettamente confinata nei limiti dell'attrazione, ma inserita nel contesto più ampio del cameratismo, che lo rende, di fatto, atto di comprensione totale, consumato in pubblico e senza remore alcuna, poiché reso dinanzi a uomini il cui codice morale è in armonia con comportamenti del genere; non ci sono pregiudizi né vergogna laddove tutti gli uomini si sentono eguali.
Lo scontro tra le due personalità è brutale e si consuma sino alle estreme conseguenze. Ma ancora più brutale è il contesto in cui questo avviene. La guerra, nello sguardo di Peckinpah, non è lotta per l'affermazione di un ideale o per affermazione individuale, bensì un massacro nel quale gli uomini tentano solo di sopravvivere; da qui la scelta di prendere il punto di vista degli uomini della Wehrmacht durante gli ultimi giorni dello'Operazione Barbarossa, dove la disfatta si fa via via più totale. La guerra è l'incarnazione della follia, ossia della perdita di ogni forma di rispetto verso la vita, la quale viene spogliata di ogni forma di umanità. E, anche qui, non è un caso il fatto che una delle prime vittime sia un ragazzino, reminiscenza di quella "Infanzia di Ivan" di Tarkovsky che viene sfrondata da ogni innocenza. Allo stesso modo, torna la visione della donna come vittima della violenza, nella sequenza dell'avamposto con le soldatesse russe, le quali regrediscono a ninfee assassine pur di sopravvivere.
Una follia, quella bellica, dalla quale è possibile fuggire per tornare a quella vita borghese la cui bellezza e serenità sono simboleggiate dall'apparizione di un'angelica Senta Berger; salvezza che viene però rifiutata, da Steiner, per senso del dovere, per poter tornare da quei commilitoni il cui pensiero non lo ha mai abbandonato.
L'effetto distorsivo che lo scenario bellico opera sul protagonista viene ricreato da Packinpah acuendo quelli che sono i tratti caratteristici della sua messa in scena; il montaggio spezzato e l'uso di diverse velocità per le inquadrature intercalate creano ora un effetto straniante, dove tutte le coordinate spazio-temporali vengono meno. Si resta spaesati durante i bombardamenti e le sparatorie, come in preda ad una sensazione di paura che corrompe i sensi, divenendo tutt'uno con i personaggi.
Dinanzi al dipanarsi degli eventi, ci si sente come dei bambini catapultati in un mondo adulto dove nulla ha davvero senso, se non l'istinto di sopravvivenza.
La narrazione cruda e schizofrenica crea così una sorta di anti-epica bellica nella quale lo spettatore è chiamato a riflettere attivamente su quanto assiste; un racconto duro come un pugno allo stomaco che il grande regista decide però di chiudere in modo beffardo, con una risata che forse anticipa il trionfo della follia, di sicuro il trionfo dell'anarchia sull'aristocrazia; oltre che con un monito, ripreso da Brecht, secondo il quale ciò a cui si è assistito non è per forza di cose superato; dopotutto, la madre dei bastardi è sempre incinta.
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