con: Ewan McGregor, Jonny Lee Miller, Kelly MacDonald, Robert Carlyle, Ewen Bremmer, Kevin McKidd, Peter Mullan, Susan Vidler, James Cosmo.
Inghilterra 1996
Anni '90: boom della generazione X; quella silenziosa "massa" di giovani, giovani adulti e giovinastri cresciuta senza punti di riferimento ora è al potere e porta con sé quel vuoto di valori che strisciava nella sottocultura anni '80, poi sedimentatosi come substrato culturale comune. Il nichilismo è un vanto, la disillusione un valore, l'a-moralità un imperativo morale.
Senza punti di riferimento, senza freni, senza autocontrollo, il cinema underground rifiorisce, riesce ad affacciarsi nei circuiti delle grandi città, permettendo a giovani cineasti di talento di imporsi come nuovi autori nel panorama mondiale con opere che danno forma e voce a quella generazione votata alla vana ricerca di qualcosa. Se in America il Sundance porta alla luce i talenti di cineasti quali Kevin Smith e Quentin Tarantino e fa riscoprire il talento di Jim Jarmusch, in Inghilterra la ripresa delle intuizioni del Free Cinema degli anni '60 riforgia la filmografia nazionale grazie al talento di una generazione di esordienti, la cui strada è stata spianata alla fine del decennio precedente da Stephen Frears (tra gli altri). E tra tutti ad imporsi è Danny Boyle, che al suo secondo lungometraggio dirige l'adattamento del best-seller di Irvine Welsh, scrittore già in quegli anni di culto, inizialmente concepito come un semplice special televisivo contro l'abuso di droga ma presto evolutosi in qualcosa di decisamente diverso. Un film che si sarebbe imposto in brevissimo tempo come un manifesto di quegli anni, di quella generazione, di quel modo di (ri)fare cinema; un film che è cult tra i cult, spaccato generazionale tra gli spaccati generazionali ed esempio di stile e cattiveria mai più raggiunto neanche dai suoi stessi autori: "Trainspotting".
Un film che è provocazione, sradicamento sistematico di ogni tipo di valore condiviso e condivisibile, inno all'autodistruzione, sberleffo sadico ai sistemi morali e materiali e, paradossalmente, in una lucida contraddizione con e da sé stesso, perfetto apologo morale, amarissimo ritratto un pugno di personaggi distrutti da sé stessi, sferzante pugno allo stomaco a quella stessa generazione che vuole infrangere ogni sorta di legame comune e ritratto impietoso dell'autodistruzione indefessa ed orgogliosa, del nichilismo blando e dell'anticonformismo un tanto al chilo.
Due anime che in realtà sono due facce della stessa medaglia, due volti di un Giano Bifronte che si chiama Occidente anni '90, i cui strascichi, vuoi anche per il revival vintage di mode e modi, si accumulano tutt'oggi. Due sguardi che sono uno, si congiungono proprio a causa e per forza di cose dinanzi a quei non-valori, a quella voglia beffarda di distruzione che quella generazione porta(va) con sé e che una volta fissati su schermo è impossibile non biasimare, anche solo in minima parte. Lo sguardo è quindi irriverente, ma anche caustico verso quei personaggi per i quali non dimostra empatia, riducendone a pezzi tutti i difetti ed i tic, a partire dal più distruttivo: l'ossessione per l'eroina, per il "buco facile" e la dipendenza.
Renton è un drogato, perso nella spirale di ogni tipo di droga; e come lui lo sono i suoi amici Sick Boy, Spud, Allison ed i loro pusher di fiducia Swanney "Madre Superiora", i quali si riuniscono in un fatiscente monolocale per bucarsi; non c'è un motivo valido per il buco, non è solo lo squallore di una Edimburgo dei quartieri più malfamati; la ricerca dello sballo viene descritta per quella che è: pura evasione, corsa verso il piacere ("prendete l'orgasmo più forte che abbiate mai avuto, moltiplicatelo per mille e neanche allora ci sarete vicino") e fuga da ogni forma di vera responsabilità, perfettamente sintetizzato nell'intro, quello sfotto al "Choose Life" della campagna anti-droga.
Il pubblico del '96 certo era abituato alle immagini forti dei "buchi" già dai tempi di "Christiane F." e giusto qualche anno prima "Pulp Fiction" mostrava in modo esplicito il "rito" dell'eroina; ma in "Trinspotting" c'è di più: il piacere della droga viene ritratto per il tramite del punto di vista unificante di chi lo insegue; il tono usato è grottesco ed ironico e la condanna è si presente, ma filtrata per il tramite dello sguardo di chi vede nell'ago non una dannazione, ma un passatempo; lo "scandalo" è tutto qui e, a ben guardare, neanche tanto euforico; perché la condanna è immediata: basti vedere la sequenza della quasi overdose, dove lo sguardo di Rent sprofonda in una fossa dalla quale riemerge a stento. O, ancora e sopratutto, la sequenza della morte della piccola Dawn, che da sola vale più di mille spot ani-abusi.
Ma è il cinismo beffardo a far da padrone; non per nulla, il punto di vista è sempre quello di Renton, a differenza di quanto accadeva nel romanzo di Welsh, ossia quello del personaggio più distaccato.
Distacco che permette a Boyle l'uso di un tono grottesco, intriso di un'ironia nera corrosiva ed irresistibile; il viaggio nella mente di Rent è allucinato, spiazzante e buffo, un caleidoscopio di immagini distorte e situazioni estreme, che si sostanziano nella sistematica "sfanculazione" delle istituzioni sociali di base; al di là del ritratto a tinte forte della generazione di vuoti a perdere, lo sguardo truce si posa sui nuclei familiari e quelli amicali.
La famiglia in "Trainspotting" è al contempo luogo salvifico ed ipocrita; non c'è differenza tra i giovani drogati e quei genitori distanti, quei cervelli fritti dal tubo catodico e rigonfi di psicofarmaci e cibi-spazzatura, zombizzati da una normalità asfissiante che fa paura quanto l'autodistruzione e che viene ridicolizzata costantemente, letteralmente sommersa dalle feci di chi non la può soffrire. Ma è proprio la famiglia a "salvare" Rent, a condurlo tramite quel sogno allucinato che gli permette di disfarsi dell'eroina e di realizzare pianamente il suo status di vuoto totale.
Una sequenza, quella del sogno da crisi di astinenza, che da sola basta a sconvolgere la mente ed i sensi, un incubo infinito dove il gusto visionario si fonde con quello pop per dar vita all'incubo dell'A.I.D.S. che scaccia l'indole autodistruttiva. E quando Rent si allontana dai suoi amici, ne realizza la pochezza: Sick Boy è un ciarlone, una sorta di pseudo-yuppie innamorato della sua finta sagacia, che colma la propria vacuità con l'apparenza ed una superiorità basata sul nulla e sulla passione per Sean Connery. Begbie, quello "che si fa di gente", è un drogato di adrenalina, un sociopatico in grado solo di combinare casini. Spud e Tommy sono due povere vittime, destinate alla sconfitta perenne e totale, quasi due rifiuti umani votati alla miseria più totale.
Ma non c'è redenzione per Rent; la catarsi è distruzione totale (anche se non indiscriminata), atto supremo di sberleffo con il quale liquida quei compagni oramai palla al piede e si incammina verso un futuro modesto, quella "normalità" tanto aberrata eppure migliore del vuoto pneumatico dato dalla compagnia dei perdenti.
Il rifiuto di ogni valore è così definitivo ed incontrovertibile, eppure mai davvero immorale; nel rifiutare gli eccessi, pur ridicolizzando l'universo di chi "sceglie la vita", Rent realizza l'inutilità dell'autodistruzione; lo scandalo semmai risiede nello strumento adoperato, ossia quell'indole distruttiva che lo porta a tradire e a non provare rimorsi. Di qui, paradosso puro, la natura "morale" del film, che di concerto con le immagini crude e dirette ben potrebbe rappresentare fonte di educazione per quelle giovani generazioni affascinante dagli eccessi.
Boyle ritrae il tutto con uno stile vivace, frizzante quanto l'interpretazione di Ewan McGregor, perfetta maschera dello sbandato totale. Il riferimento è sicuramente il Free-Cinema, ma anche il cinema metropolitano di Scorsese e Spike Lee, in una fusione che crea un registro nuovo e di sicuro impatto. Dove il montaggio spezza scene ed inquadrature per ricostruirle grazie alla colonna sonora, che mischia agilmente musica classica ad Iggy Pop, dance e Lou Reed, giustapponendo, in modo al solito beffardo, immagini drammatiche a sonorità leggere, per creare un'aura di cinismo ancora più marcato.
Al punto da divenire semplicemente memorabile. Ed il merito di Boyle non sta tanto nell'essere riuscito a dare una forma sgargiante alle pagine di Welsh, quanto nel aver saputo evitare le trappole più ovvie, da quelle dell'autocompiacimento spicciolo a quelle del moralismo sensazionalista, in un equilibrio sempre pressocché perfetto di forma e contenuto. Come solo il buon cinema riesce.
È un film memorabile al quale - lo confesso - non sono mai stato troppo affezionato. Mi è venuta voglia di riguardarlo ora, in attesa del sequel. Chissà se cambierò parzialmente idea!
RispondiEliminaIn realtà credo che sia un film che si ama se lo si guarda all'età giusta, intorno ai 12-13 anni, quando quelle immagini risultano ancora più potenti e penetranti.
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