giovedì 2 febbraio 2017

Questa è la mia Vita

Vivre sa Vie: Film en Douze Tableaux

di Jean-Luc Godard.

con: Anna Karina, Sady Rebbot, André S. Labarthe, Monique Messine, Guylaine Schlumberger, Gèrard Hoffman.

Francia 1962















"Volevo dire questa frase con un’idea precisa e non sapevo quale fosse la maniera migliore di esprimere quest’idea. O meglio, lo sapevo ma adesso non lo so più, mentre, appunto, dovrei saperlo". E' in questa prima battuta che viene ricompreso tutto il significato del film; "Questa è la mia Vita" viene infatti dopo l'excursus nella commedia del coevo "La Donna è Donna", ma vi si distanzia totalmente per i toni e sopratutto per la ricerca espressiva, che ora si fa decisamente più spasmodica. Godard è ossessionato dalla forma, da quel linguaggio filmico che fa della falsità un punto di inizio e d'arrivo. Come dunque riuscire a narrare in modo completo e sincero una storia semplice, dall'impianto quasi neorealista?
La soluzione adottata è sbalorditiva: la suddivisione del racconto in 12 quadri (in parte simili agli "sketch" che utilizzava anche Truffaut), dove solo il narrato ha una forma prestabilita, mentre il contenente viene  adattato di volta in volta alle esigenze del momento. La sceneggiatura cede il posto al canovaccio: il "quadro" include i nuclei tematici della singola scena o della sequenza e viene declinato di volta in volta in modo diverso. La pellicola diviene così tela da imbiancare con pennellate precise, ma mai ancorate ad un sistema di riferimento (narrativo, stilistico ed estetico) dato per assoluto.





Lo sguardo di Godard si fa al contempo più eclettico e meno dinamico rispetto a prima. Lo stile di ripresa è quasi ieratico nella scelta dell'inquadratura: dalle statiche strette, i primi piani espressivi ed i movimenti di macchina calcolati al millimetro si passa ad un montaggio veloce ed agli amatissimi jump-cut. La sua comincia a divenire quell'ossessione per la ricercatezza formale come via per giungere ad un linguaggio definitivo, in un costante rilancio, quasi spasmodico, dello stile.D'altro canto la sua voglia di ricerca è chiara sin dai titoli di testa, con quelle inquadrature perfette del profilo di Anna Karina a testimonianza della volontà di ritrarla nel modo più genuino possibile. Non per nulla, a tornare in uno dei primi quadri è lo spirito di Dreyer, che con i suoi primi piani de "La Passione di Giovanna D'Arco" (1928) rivoluzionò il concetto stesso di linguaggio filmico.




Costante ricerca formale ed espressiva che non arriva mai ad obliare il racconto. Quella di Nana è una storia quasi neorealista negli eventi, che Godard porta in scena con la giusta sensibilità, distaccandosi in modo chirurgico. 
Nana, reminiscenza di quel capolavoro di Jean Renoir, è una ragazza della Parigi dell'epoca, stretta tra la povertà del sottoproletariato (lavora in un negozio di dischi per pochi soldi) e le ambizioni mal riposte nel cinema, il cui unico appiglio è la propria bellezza. Al punto da divenire in breve tempo una prostituta, solo per finire morta ammazzata a causa del suo magnaccia.




Godard non dà giudizi sulla sua vita, si limita a seguirla, a scandagliarne gli umori, le reazioni vogliose e talvolta capricciose agli eventi, addentrandosi in quel sottobosco parigino sovente ignorato dal cinema. La sua vita, il modo in cui la vive, le sue aspirazioni e tragedie vengono ammantate con un forte strato di pudore: non c'è la ricerca dello scandalo, neanche quando in scena appaiono i nudi.




E la ricerca spasmodica di un registro adatto alla fine dà i suoi frutti: il racconto è ameno eppure incredibilmente coeso, lo stile perennemente vario ma sempre e comunque in grado di cogliere le sottigliezze del personaggio e delle situazioni. Un esperimento che anche questa volta Godard fa riuscire su tutta la linea.

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