giovedì 9 febbraio 2017

Moonlight

di Barry Jenkins.

con: Mahershala Alì, Jaden Piner,  Ashton Sanders, Jharel Jerome, Naomie Harris, Duan Sanderson, Janelle Monàe, Alex R.Hibbert.

Drammatico

Usa 2016
















Con una decisione spiazzante, nel dicembre scorso la direzione dei BAFTA ha annunciato una nuova regola: potranno essere premiati solo quei film che trattano temi riguardanti le minoranze etniche o i conflitti sociali, che hanno attori o membri della troupe appartenenti a minoranze o che,in qualsiasi altro modo, propagandano la multiculturalità. Decisione che sembra voler andare in due direzioni: da un lato essere più inclusivi verso opere e temi d'attualità, dall'altro evitare uno scandalo simile all' "OscarSoWhite" che tanto fece infuriare i ben pensanti la scorsa stagione.
Ma nei fatti in cosa si traduce questa regola? Semplice: solo pellicole che hanno determinati standard, di certo non qualitativi, potranno ricevere uno degli agognati "Oscar britannici"; con la conseguenza che l'inclusività finisce per tarpare le ali a pellicole ed autori meritevoli e la presunta apertura mentale alle spalle di una decisione del genere finisce per forza di cose per essere percepita come una forma di bigottismo falso progressista, la classica "doccia per la coscienza" che società occidentale, in più occasioni, utilizza ipocritamente per lavarsi via i veri scandali del passato.
Non deve quindi stupire se ai successivi Golden Globes a far strage di premi siano stati, oltre a "La La Land", pellicole come "Moonlight" e "Barriere", che sbattono in faccia allo spettatore i drammi degli afroamericani e degli omosessuali ammassando per accumulo temi e drammi (la prima) o riproponendo tutti i cliché del caso (la seconda); fa più rabbia, semmai, lo snobbismo verso quel "Silence" che porta anch'esso in scena un dramma epocale e sempre attuale, quello della segregazione e della persecuzione e lo fa con una lucidità ed una crudezza inusitata; forse per i bigotti del buonsenso un asiatico non vale quanto un afroamericano e più che all'effettiva qualità di un opera bisogna davvero badare al colore della pelle di chi la dirige o interpreta. Situazione ancora più squallida se si tiene conto di come "Moonloght" sia quasi un film manifesto di un cinema ipocrita e vuoto, finto moralista, finto progressista e finto autoriale, il cui autore, Barry Jenkins, sarà pur spinto dalle migliori intenzioni, ma finisce per fare un clamoroso buco nell'acqua.





I modelli di riferimento sono aulici: la crisi identitaria che cela l'omosessualità di Fassbinder incontra la violenza dei ghetti di John Singleton e del primo Spike Lee. Lo spaccato di vita vuole farsi racconto morale, seguendo tre fasi della vita del protagonista, Chiron; personaggio afflitto da ogni tipo di problema sociale ed esistenziale possibile ed immaginabile: omosessuale (forse per natura, forse per scelta), perseguitato dai bulli sin dall'infanzia, vittima della violenza durante l'adolescenza, sottomesso da una madre tossicodipendente e destinato a diventare anch'egli un'anima persa nella vita da strada.
Le disgrazie, i drammi e le sconfitte si accumulano, ma anzicchè trasformare il racconto in un dolente dramma umano come nella tradizione del cineasta tedesco o in un saggio pop ed espressivo come in quello dei figli della blaxploitation degli anni '90, la narrazione si accascia su tutti i cliché del cinema indie, sia drammaturgici che estetici. Il distacco verso la materia è come al solito d'obbligo, la freddezza chirurgica congela ogni singola scena e a farla da padrone sono inquadrature para-oggettive asfittiche, fatte di nuche e schiene che si muovono su schermo, in una ricerca del rigore a tratti ridicola, sfrontatamente portata avanti per celare le radici teatrali dello script





La teatralità della scrittura, però, portata in scena senza alcun piglio espressivo finisce per schiacciare caratterizzazioni e personaggi, tutti rigorosamente stereotipati; il patrigno che viene dalla strada ma saggio, l'amico traditore, il bullo sboccato, la madre oppressiva, tutti i personaggi finiscono per essere caricature semoventi che affossano ogni possibile profondità.
Non che a Jenkins paia interessare, tant'è che tutti i drammi e le tematiche vengono usate come mero pretesto narrativo. Non c'è la volontà di entrare davvero nel mondo del personaggio, di comprenderne le emozioni ed i pensieri, quanto quello di ritrarlo in modo completo, ma piatto. Tanto che alla fine, persino la catarsi appare scontata, prevedibile e del tutto inutile vista la totale mancanza di empatia non-generatasi nel corso delle 2 ore di durata, troppe e troppo lente. Non a caso, l'unica scena riuscita, l'unica che si ferma davvero nella mente, è quella del dialogo sulla parola "faggot", unica concessione al sentimento che in parte riesce a trasmettere l'inquietitudine del protagonista.





Perché oltre che fiacco, il racconto è prevedibile, manca di vera originalità, peccato mortale in una storia raccontata volutamente con piglio anestetico. Non resta nulla del dramma, non c'è emozione né convinzione, solo immagini vuote che si agitano sullo schermo, alla faccia delle tematiche essenziali che Jenkins decide di affrontare.
La mancanza di verve non gli impedisce, per paradosso puro, di scomodare anche nella messa in scena riferimenti colti; quando quell'ultima inquadratura si palesa come una pretenziosa ripresa del cinema di Truffaut, si capisce come questo cinema falso sperimentatore che vampirizza il vero cinema d'autore europeo ed americano che fu non può che essere bollato come parodistico, oltre che incredibilmente vuoto. Non c'è rielaborazione dei modelli dati, come avveniva ai tempi della New Wave, né il gusto per un vero postmodernismo colto: quel che conta è tirare su la posta, puntare in alto senza avere la voglia di impegnarsi davvero nell'esplorare i temi trattati, né nel dar loro una completa e convincente forma filmica.





Quel che resta è solo una sorta di delirio vacuo che vorrebbe essere cinema d'autore, che gira a vuoto per tutta la sua durata, impaurito da sé stesso e dalle implicazioni che potrebbe avere.
Il successo di critica è però ben spiegato: oltre che ad usare uno stile abusato comunemente associato al cinema d'essai e per questo automaticamente efficace (sulla carta), "Moonlight" butta in faccia allo spettatore tutti quei temi finto taboo che alla critica ignorante finto-colta e allo spettatore che cerca di darsi un tono piace guardare; e lo fa senza correre rischi, non offendendo né spiazzando nessuno. Il modo in cui tratta tali tematiche, tanto, non fa testo, l'importante è sbandierarle, usarle come facciata; ecco a voi la nuova frontiera dell'Oscar-Bait.

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