lunedì 23 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon

di Martin Scorsese.

con: Leonardo DiCaprio, Robert DeNiro, Lily Gladston, Jesse Plemons, Tantoo Cardinal, John Lithgow, Cara Jade Myers, Brendan Fraser, Jason Isabel, Jillian Dion, William Belleau, Louis Cancelmi, Janae Collins, Scott Shepherd.

Drammatico

Usa 2023










Se si pensa all'esplosione del cinema woke, è difficile trovare all'interno della miriade di pellicole più o meno seriamente impegnate qualcuna che tratti la questione dei Nativi Americani. A fronte di valanghe di film, serie televisive e persino cartoni animati che ogni anno portano sui vari schermi storie di schiavismo, emancipazione femminile e di orgoglio della comunità LGBTQ+, gli unici film che hanno rivolto la loro attenzione verso i nativi sono stati "Prey" (e solo per usare i Comanche come "gimmick") e il purtroppo già dimenticato "Wind River".
L'eredità di un passato più scomodo di quello schiavista sembra essere, per gli Americani, impossibile da sorreggere, tanto il suo rigetto si sostanza, in pratica, solo nelle vacue proteste durante il Columbus Day, mentre nulla di fatto si attua per cercare di migliorare la situazione nelle riserve o anche solo per dare voce alle piccole e grandi storie di sopraffazione della relativa comunità.
E' per questo che quando un artista del calibro di Martin Scorsese ha annunciato di essere al lavoro su di un film tratto dal libro di inchiesta "Gli Assassini della Terra Rossa" di David Grann, la speranza che qualcosa cambiasse iniziò davvero ad accendersi. E, fortunatamente, Scorsese non delude, creando un ritratto sanguigno e dolente di un mondo che si preferisce ignorare.




Già la storia degli Osage in sé stessa (e così come portata in scena) rappresenta uno sguardo su di un'America lontana dagli stereotipi. Stanziati nell'attuale Oklahoma, un centinaio di anni fa divennero la popolazione più ricca di tutto gli Stati Uniti grazie alla scoperta del petrolio nelle loro terre, con le grandi aziende di estrazione che pagavano i diritti di sfruttamento dei terreni a peso d'oro. Si venne così a creare una situazione paradossale nella quale i Nativi erano la classe ricca, mentre i bianchi la manovalanza, quel sottoproletariato che viveva alle spalle di una classe dirigente che benché anch'essa formata in parte da bianchi, era pur sempre al servizio di una nazione di nativi talmente ricchi da annegare nel lusso più sfrenato.




La storia di "Killers of the Flower Moon", basata su avvenimenti reali, è ovviamente connessa a tale paradosso: all'indomani della fine della Prima Guerra Mondiale, lo scapestrato reduce Ernest Burkhart (DiCaprio) torna in patria e si trasferisce presso il facoltoso zio William Hale (De Niro), residente presso la contea di Fairfax, nella riserva Osage. Qui inizia una relazione con Mollie (Lilly Gladstone) al solo fine di carpirne i diritti per le royalties del petrolio e incrementare il patrimonio di famiglia.




Scorsese crea una perfetta metafora del capitalismo americano, nonché un nuovo ritratto delle origini della nazione. Come in "Gangs of New York", gli Stati Uniti vengono edificati sul sangue, lì quello degli immigrati, qui quello degli indigeni. 
I bianchi, ex colonizzatori e ora padroni, qui sono dei veri e proprio parassiti, arrampicatori sociali che non si fanno scrupoli a rapinare e persino ad uccidere gli indiani pur di ottenere un profitto. Il razzismo, in tale contesto, non è una questione di presunta superiorità genetica o intellettuale, quanto un'istanza dettata dalla pura avidità, da cui la disumanizzazione di un "diverso" visto unicamente come frutto da spremere e poi gettare via. Razzismo che diventa parte integrante del processo di affermazione capitalistica e persino lo spettro del rimosso massacro di Tulsa torna ad affacciarsi, in una rappresentazione certamente più contenuta, eppure decisamente più precisa di quella vista nella brutta serie HBO tratta da "Watchmen".
La dinamica sociale, benché a parti invertite sotto l'aspetto razziale, è quindi quella di una normale società capitalistica, dove si aggiunge la figura opportunistica dei parveneu. E centro di tutto c'è il personaggio di William Hale, vera e propria maschera del capitalismo americano.




Hale, monarca senza corona, si presenta come simpatizzante degli Osage, ne conosce gli usi, ne parla la lingua, si è perfettamente integrato nel loro tessuto sociale e si professa loro amico, ma a muoverlo è ovviamente il solo interesse economico, il profitto totale, il guadagno talvolta spicciolo, da cui l'uso del nipote come strumento per insinuarsi all'interno del mercato dell'oro nero. Per di più, è un massone di alto rango e amico degli alti papaveri del KKK.
Il rapporto che ha con gli Osage non è neanche di stampo razzista, poiché non vede loro come esseri inferiori; è peggio: li considera come delle non-entità, esseri al limite del non-esistente, da cui la facilità con cui ne ordina l'uccisione per avanzare il suo schema di arricchimento (tanto che uccide con facilità anche bianco Bill Smith, riprova dell'avidità che supera il pregiudizio razziale). L'escalation di violenza, trasforma tutto il film in una sorta di gangster movie dove però la lotta per il potere è univoca.




Ernest Burkhart è invece la maschera di quegli aspiranti parveneu che vivono ai margini della società, di coloro che non hanno né ricchezza, né potere, ma sono lo stesso pronti a tutti pur di ottenerli; la sua storia con Mollie è quella di un arrampicatore sociale che persino quando scopre di avere dei sentimenti riesce a contenerli per continuare a farle del male.
La prospettiva degli Osage viene così data principalmente da quest'ultimo personaggio (il cui punto di vista pare sia stato inserito appositamente da Scorsese nel corso delle riscritture della sceneggiatura) ed è da esso che trasuda il dramma di tale popolo; un popolo americano a tutti gli effetti e a tutti gli effetti tanto ricco quanto invisibile agli occhi del potere, con le morti all'ordine del giorno e quei potenti che si voltano dall'altro lato, disinteressati alle loro sorti; da cui la rappresentazione del senatore inquadrato solo di spalle e l'arrivo del FBI solo dopo la morte di un bianco.




Scorsese non usa mezzi termini e calca la mano riuscendo a creare un ritratto a tinte fortissime di una "Nascita di una Nazione" persino più truculenta di quella vista in "Gangs of New York" (ovviamente non sul piano strettamente visivo). Il suo intento è quello di creare un'opera strettamente politica, la quale si configura come la sua più smaccatamente tale (assieme a "Kundun"). arrivando persino ad apparire in prima persona in quel bel epilogo, quella beffarda rappresentazione di una beffarda rappresentazione di un dramma vero e pulsante che qui e ora trova finalmente un'adeguata messa in scena.
La sua messa in scena è così classica, come propria di tutto il suo cinema degli ultimi vent'anni, ma anche impreziosita da un mestiere al solito magistrale, con solo due limiti dovuti più che altro al caso: l'ultima parte, dove la fase "procedural" ha il sopravvento, diventa più pesante e forse anche meno interessante e il montaggio di Thelma Schoonmaker questa volta è visibilmente sfasato tra inquadratura e inquadratura, anche se la cosa non diventa mai davvero fastidiosa.




"Killers of the Flower Moon" è così un pamphlet tanto fluviale quanto graffiante, un atto d'accusa tanto potente quanto sincero contro una forma di colonialismo moderno tutt'ora in corso (l'ultima inquadratura, che lo mette in parallelo proprio con il "Wind River" di Sheridan), nonché l'ennesimo esempio di grande cinema dalla grande caratura morale di un autore mai troppo lodato.

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