sabato 14 aprile 2018

I Segreti di Wind River

Wind River

di Taylor Sheridan.

con: Jeremy Renner, Elizabeth Olsen, Jon Bernthal, Apesanahkwat, Kelsey Asbille, Graham Greene.

Usa, Canada, Inghilterra 2017


















---CONTIENE SPOILER---

Non esistono statistiche sulla scomparsa delle donne nativo-americane; così Sheridan chiude il suo secondo film e terzo tassello di un'ideale trilogia sulla frontiera americana, iniziata con "Sicario" e proseguita con "Hell or High Water". Un dato assente, un silenzio su di una realtà scomoda, neanche la più tragica di quelle vissute nelle riserve, veri e propri ghetti in pieno nulla dove la vitalità media è di neanche 50 anni.
Un' America nell'America, non differente dai quartieri più malfamati di L.A. o New York, lontana da quell'immagine di paradiso incontaminato che potrebbe servare. Ed il Wyoming protagonista di "Wind River" aggiunge un qualcosa in più al quadro di desolazione: il paesaggio ai limiti dell'alienante, immerso in nevi perenni ed ancora più perenni silenzi.




Succede poco in "Wind River"; anzi, il più è già accaduto: il cadavere della giovane nativa Natalie (Kelsey Asbille) viene ritrovato dal trapper Cory Lambert (Renner) immerso nelle nevi; per investigare sulla strana morte, arriva in paese una giovane ed avvenente agente dell' F.B.I., Jane Banner (Elizabeth Olsen), che assieme a Lambert e allo sceriffo Ben (Graham Greene) inizia a seguire la pista dell'omicidio.




Una trama semplice, "classica" che più non si può; perchè a Sheridan non interessa il meccanismo del "whuddunnit", tantomeno lo scompagimento dello stesso, quanto gettare uno sguardo umano ed empatico su di un pugno di personaggi segnati dal dolore.
Il dolore della perdita di una figlia, che segna Cory così come il padre di Natalie; lei, migliore amica di Emily, figlia di Cory, anch'ella trovata morta nella neve qualche anno prima, in circostanze tanto simili.
Famiglie a pezzi, distrutte da una desolazione interiore che fa il verso a quella esteriore: il consumo di droga come escapismo forzato, l'alcool come passatempo, la violenza come forma di intrattenimento.
E la tensione tra i nativi ed i bianchi è sempre alle stelle; se Cory è un un bianco che ha abbracciato le tradizioni indiane, riconoscendone la bellezza, i "cattivi" della situazione altro non sono che la versione moderna di quei colonizzatori che ricacciarono i figli del Grande Spirito nelle roulotte ai margini della società.




Il lutto diviene il perno su cui i personaggi sono chiamati a muoversi. L'assimilazione del dolore è passaggio necessario per ritrovare sè stessi, superare la perdita e, forse, ricostruire quel nucleo familiare distrutto dagli eventi.
Tanto che Sheridan decide di chiudere la vicenda, prima ancora che con il dato statistico fantasma, con un confronto tra i due personaggi cardine, i quali forse hanno avuto una pure minima catarsi dalla vicenda.




E se la regia a tratti imprecisa nella costruzione delle scene, un plauso va però fatto a Sheridan per l'uso sapiente dei silenzi, dei dialoghi asciutti e per la scelta di immagini mozzafiato, dove la magnificenza del paesaggio diviene perfetta incarnazione dello smarrimento dei personaggi.

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