Nobi
di Shinya Tsukamoto.
con: Shinya Tsukamoto, Lily Franky, Tatsuya Nakamura, Yuko Nakamura, Dean Newcombe, Hiroshi Suzuki.
Guerra/Horror
Giappone 2014
Già in "Kotoko", per Tsukamoto l'ossessione per la mutazione del corpo/mente e per la relativa disgregazione incontrava un'altra fobia, quella della guerra, che faceva capolino in una breve ma intensa sequenza. Fobia condivisibile, di questi tempi, con la Corea del Nord ed il suo atteggiamento ambivalente verso l'occidente e lo stesso Giappone, tanto che il grande artista, nel 2014, decide di elaborarla in un'opera completa.
"Fires on the Plain", basato sul romanzo omonimo di Shoei Ooka, già portato con successo al cinema nientemeno che da Kon Ichikawa nel 1959, è un viaggio allucinato nella testa dell'autore e nel suo rapporto con tutto l'orrore che scaturisce da un conflitto armato, dove le coordinate spazio-temporali proprie della II Guerra Mondiale vengono presto trasfigurate in un discorso universale, per un ritratto a tinte forti, ma sin troppo semplice.
Un inizio in medias res, con il soldato interpretato da Tsukamoto che fa avanti ed indietro dall'ospedale da campo alla base. Malato ai polmoni, il milite non trova conforto nei medici ed è costretto a scegliere tra il vegetare fuori dalla capanna-lazzaretto o il suicidio; finchè il conflitto non irrompe anche in quel pezzo di giungla, forzandolo ad un'odissea verso una salvezza apparentemente irraggiungibile.
Una giungla, quella ritratta, rigogliosa, dai colori sgargianti e vivi, contrapposti allo sporco dei soldati, macchiati di sangue e sporcizia per tutta la durata del film.
Un viaggio nei meandri della stessa dove essa diviene labirinto mentale e costrizione fisica: la mancanza di cibo mette sovente alle strette il protagonista, forzandolo a cibarsi di radici selvagge che gli causano malanni.
Fino all'incontro con altri sopravvissuti: l'allucinato Caporale, dal quale i proiettili sembrano davvero stare alla larga, il soldato piagnucolone ed il "Vecchio" ferito ad una gamba, strana coppia perennemente affamata.
L'orrore si dipana a poco a poco, la follia sprizza pian piano dalla mente. L'atmosfera si fa subito distorta, allucinata, mentre il personaggio di Tsukamoto regredisce a poco a poco ad uno stato ferino; sino a giungere al più basso grado possibile: un cannibale che per la disperazione divora la sua stessa carne pur di sopravvivere.
Intorno a lui, solo disperazione: dai commilitoni resi cinici e folli dagli eventi, ai civili spaventati a morte dalla sua sola presenza, tutto è votato alla distruzione, come in un Inferno dantesco risalito in terra nel quale i personaggi sono rimasti intrappolati.
Non c'è progressione vera e propria negli eventi, nè una vera e propria discesa nelle maglie della follia; benchè la regressione del protagonista sia lo stesso avvertibile, essa è già in atto all'inizio della narrazione; questa si sviluppa così in una serie di sequenze slegate tra loro, quasi episodiche, nel quale il protagonista resta isolato e chiamato a sopravvivere contro tutto e tutti.
Di conseguenza, ogni cosa è già scritta nell'incipit, il resto è pura ripetizione. Lo stile viscerale proprio del primo cinema di Tsukamoto rende le immagini incredibilmente disturbanti, come quelle di un horror vero e proprio: quando la violenza irrompe, non lascia scampo a nessuno, sia quando mostrata in modo diretto e cinico, sia quando lasciata in parte fuori campo.
Ma il racconto non è davvero incisivo, risulta sin troppo ovvio nella premessa e ancora più nell'esecuzione. Non graffia, nè riesce ad imprimersi a dovere nella mente. Nonostante la violenza e gli orrori, tutto diviene subito freddo, si assiste alle peripezie dei personaggi in modo distaccato, senza essere davvero coinvolti persino quando è l'atrocità pura a divenire protagonista.
Non un passo falso nella carriera di un grande autore, quanto un passaggio forse sin troppo obbligato nella sua riflessione, per questo privo di quella forza dirompente ed incontenibile che ha da sempre caratterizzato il suo cinema.
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