con: Caleb Landry Jones, Jojo T.Gibbs, Christopher Denham, Maria Berenson, Clemens Schick, Michael Garza, Avant Strangel, Grace Palma.
Francia, Usa 2023
L'immeritato flop di "Valerian e la città dei mille pianeti" ha messo un ennesimo freno all'ambizione di Luc Besson, il quale ha dovuto ripiegare nuovamente sul suo tipo di cinema abituale. Bando, dunque, a trame rocambolesche, mondi fantascientifici ameni e umorismo gioviale, in favore di un ritorno di personaggi complessi e complessati in un nuovo mix di melò e noir, come già avvenuto nel 2019 con "Anna". E anche "Dogman" è null'altro se non un concentrato di (quasi) tutto il cinema del turbinoso autore francese, nel quale confluiscono fior fiori di cliché e luoghi comuni annaffiati da qualche rimando cinefilo, in un mix che per puro miracolo risulta simpatico.
Il protagonista Douglas, affidato ad un Caleb Landry Jones che finalmente può sfogare tutto il suo range attoriale, è un'anima persa al pari di Léon, Nikita e Danny the Dog (da cui anche il simbolismo del canide): cresciuto in una famiglia disfunzionale la quale lo ha segnato tanto nella mente quanto nel corpo, sottomesso ad una potestà divina che riconosce con forte riluttanza, si ritrova a vivere una vita ai margini della società, con i cani come soli veri famigliari. E tutto "Dogman" altro non se non uno spaccato di questo personaggio rotto ed incredibilmente empatico.
Il punto di riferimento principale è il Joker di Todd Phillips, citato esplicitamente a margine della promozione del film, ma lo sguardo che Besson rivolge al suo Joker non è di biasimo, quanto di compassione; laddove il Clown Principe del Crimine era un uomo malato e sofferente che il cinismo della società trasforma prima in un mostro, poi in una maschera deformata del lerciume che lo ha prodotto, il Dogman è una vittima che anche quando adopera la violenza lo fa al fine di proteggere il prossimo o al massimo se stesso; tanto che se di villain si vuole parlare, questo strano supercriminale sembrerebbe uscito davvero dalla rogue gallery di Batman, più precisamente, però, da quella versione vista nella serie animata di Bruce Timm e Paul Dini, dove la maggior parte dei "cattivi" altro non erano che vittime incattivite.
Douglas è la quintessenza di tale tipo di personaggio e Besson non ci va certo leggero con la sua caratterizzazione. Si parte da quella famiglia di redneck del New Jersey che potrebbero essere la parodia dello stereotipo, se non fossero usati in modo mortalmente serio nella narrazione, con un padre violento per natura, un fratello infame anche lui per natura e una madre che scappa via subito con la scusa di una nuova gravidanza. Il tutto immerso in una religiosità ottusa e bieca, che porta il protagonista ad odiare Dio e anzi ad indentificarlo con la figura canina (l'ovvio anagramma tra "god" e "dog").
Doug (anche qui il nome richiama il termine "dog") sviluppa così una personalità dolente e soprattutto frammentata, da cui il ricorso alle maschere per potersi esprimere; dapprima tramite il teatro, con una sottotrama anch'essa ovvia, in secondo luogo con i travestimenti drag e l'acquisizione di uno status di travestito vero e proprio, anche se non di omosessuale, calato all'interno di un immaginario queer antiquato.
Il ritratto di quest'anima in pena fa poi il paio con il contesto noir, dato dapprima dal suo ruolo di "giustiziere" di quartiere, mentre nella seconda parte di ladro che vede nel furto una forma di ribellione alla società, anch'essa blanda; in entrambi i casi le influenze fumettistiche sono anche la parte più gustosa, con i cani usati come prolungamento del corpo del personaggio, in una sorta di superpotere sottile, la cui origine è data per scontata, creando sicuramente una lacuna, ma lasciando che tutta la vicenda diventi così anche più affascinante.
Alla fine, tutto in "Dogman" è già visto, tutto è esagerato fino al kitsch, ogni singolo aspetto della sceneggiatura non si smuove di un millimetro dal puro luogo comune, portato poi in scena nel modo più convenzionale possibile.
Eppure, in una alchimia tanto stramba quanto impossibile da razionalizzare, il risultato è lo stesso interessante; merito dell'impegno di Caleb Landry Jones e dello stesso Besson, che credono fino in fondo a quanto stanno facendo, rendeno questo exploit tanto ovvio quanto incantevole.
Garrone + Mainetti, quindi... "Lo chiamavano Dogman"
RispondiEliminaDi suo, a parte l'ovvio Leon, ho sempre amato questo:
Eliminahttps://cinematografiapatologica.blogspot.com/2013/01/le-grand-bleu-1988-di-luc-besson.html?m=1
Si XD
Elimina"Le Grand Bleu" non ho mai avuto l'occasione di guardarlo, lo recupero appena posso ;)
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