di Kiyoshi Kurosawa.
con: Haruhiko Kato, Kumiko Aso, Koyuki, Kurume Arisaka, Masatoshi Matsuo, Shun Sugata, Shinji Takeda, Jun Fubuki, Koji Yakusho, Sho Aikawa.
Giappone 2001
L'inclusione di "Kairo" all'interno del filone del J-Horror di fine anni '90/primi anni 2000 è in tutto e per tutto un'esagerazione. Certo anch'esso parte da una premessa simile a quella del "Ringu" di Hideo Nakata che ha praticamente sdoganato il filone, ossia la tecnologia come viatico per una forza maligna ultraterrena e rediviva che distrugge chiunque tocchi; eppure, non potrebbero davvero esserci due opere più diverse: laddove Nakata racconta quella è una storia di fantasmi "classica" declinandola in chiave moderna e originale, Kiyoshi Kurasawa scompagina il racconto di genere purgandolo da ogni effettiva deriva orrorifica per trasformare la premessa fantastica in una perfetta metafora sociale. E sebbene anche in "Ringu" la lettura metaforica è voluta, in "Kairo" essa è praticamente l'unico vero interesse di chi racconta.
In prospettiva è poi anche semplice comprendere il perché di una tale associazione, data la produzione del canonico remake americano brutto che appiattisce l'originale dimostrando di non averlo compreso (uscito in sala nel 2005); ma essa resta comunque forzata: il piccolo gioiello di Kurosawa è più vicino al cinema d'autore nipponico, in particolare all'eredità dell'opera e della filosofia di Shinya Tsukamoto, non tanto per l'estetica o lo stile, quanto per le tematiche e l'ambientazione metropolitana. Il che lo rende per forza di cose decisamente più interessante.
La premessa fonde come da tradizione del J-Horror tradizione e modernità: i fantasmi esistono e, poiché nell'aldilà non c'è più posto, finiscono per tornare sulla Terra, infestando gli anfratti delle città. Il punto di incontro tra i due mondi è Internet, con lo schermo del computer che sostituisce quello televisivo come ponte tra due dimensioni antitetiche e lo spettatore nuovamente chiamato ad essere vittima. Ma le similitudini con gli onryo vendicativi della tradizione finiscono qui.
Gli spettri di "Kairo" sono i morti comuni, non vittime di ingiustizie intrappolate nel proprio rancore; e non sono neanche carnefici nel senso convenzionale del termine: la "maledizione" che portano è decisamente più sconvolgente e infinitamente meno malvagia, perché loro sono la dimostrazione empirica di una vita dopo la morte, di una continuazione di quanto succede da vivi, la quale non è forma retributiva come la religione fa credere, ma una pura continuazione del passato. E in un mondo caratterizzato dalla solitudine e dalla mancanza di contatto fisico, dimostrano la perpetuità del male di vivere, una condanna che non impongono, che affligge già chiunque e della quale loro portano solo coscienza e piena realizzazione.
Le vittime divengono così coscienti della miseria umana, realizzano di non poter riscattarsi da una vita di solitudine. E' l'alienazione la vera maledizione e per una volta i mostri sono per davvero le vere vittime. Un'alienazione moderna, causata dallo stile di vita post-industriale novecentesco che agli albori del nuovo millennio viene acuita dal web. Come la VHS due decenni prima permetteva agli utenti di chiudersi in casa e tagliarsi fuori dal resto dell'esistenza, il computer permette alle persone di rimanere perennemente connessi restando segregati, aumentando il tasso di isolamento anzicché accorciare le distanze tra le persone, rinchiuse in enormi bare di cemento in un mondo che ha perso i colori, ammantano in quella che è praticamente una monocromia data da tinte slavate, come il cemento vecchio o le tompagnature usurate.
La maledizione è la solitudine e alla fin fine tutti i personaggi vi soccombono. Non per nulla, nessuno ha un contatto umano sul piano fisico vero e proprio, l'unica concessione è data dalla testa di Harue (Koyuki) sulla spalla di Kawashima (Haruhiko Kato), la quale non prelude a nessuna salvezza, anzi anticipa la spirale distruttiva finale del personaggio. Ed è proprio Kawashima quello che sembra inizialmente refrattario alla soccombenza, proprio a causa della sua poca dimestichezza con l'informatica. Ma il messaggio tecnofobico è in realtà solo superficiale, il dito viene puntato contro la mancanza di umanità nelle relazioni, vera maledizione moderna.
Una maledizione che porta le persone a scomparire, a divenire parte integrante dello sfondo, confondersi con l'ambiente, perdere la sua specificità. L'essere umano non esiste senza relazioni, quindi quando realizza la sua vacuità sfuma verso la non esistenza più totale, condannato a restare imprigionato in un angolo di mondo dal quale può solo chiedere un aiuto vano.
Di fatto, Kurosawa costruisce tutte le inquadrature giocando con il rapporto tra i corpi dei personaggi e l'ambiente, usando panoramiche per seguirli all'interno degli stessi, facendoli spesso confondere. E crea non solo una serie di apparizioni ectoplasmatiche sinistre, ma anche una delle inquadrature più espressive del decennio, quella della nave piantata in mezzo al mare, in grado di trasmettere una sensazione di isolamento insostenibile pur essendo un campo lungo in esterno giorno.
Quanto alla mitologia alla base della storia, essa è volutamente vaga. Stabilito il perché i fantasmi appaiono, molto viene lasciato in sospeso, come la necessità dell'uso del colore rosso per contenerli (intuibile solo grazie alla scena con il cameo di Sho Aiakwa). A Kurosawa interessano i personaggi umani, quei vivi che forse sono già morti e le loro reazioni alla rivelazione. Il che rende "Kairo" più sconvolgente di qualsiasi racconto di puro genere possibile.
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