di Takashi Shimizu.
con: Megumi Okina, Misaki Ito, Misa Uehara, Yui Ichikawa, Yoji Tanaka, Takako Fuji, Kanji Tsusda, Kayoko Shibata, Yuya Ozeki.
Horror
Giappone 2002
Il rapporto tra Takashi Shimizu e il suo "Ju-On", la creatura che fama imperitura gli ha donato, è stranamente complesso; questo perché ha declinato la medesima idea almeno tre volte: la prima volta è stata nel 2000, quando "Ju-On" prende le forme di un lungometraggio straight-to-video la cui distribuzione è inizialmente limitata al solo Giappone. L'ultima è l'immancabile remake americano datato 2004, questa volta prodotto da Sam Raimi, il quale decide saggiamente di affidare il progetto al suo creatore originale, portando alla creazione di quello che è praticamente il miglior esponente del filone "J-Horror americanizzato". In mezzo c'è il film cinematografico del 2002, quello che si è imposto in primis all'attenzione di tutti e che ha generato il fenomeno alla base di tutto; il quale è a sua volta un sequel non solo della prima incarnazione del 2000, ma anche del sequel diretto di quest'ultimo, "Ju-On: Rancore 2" sempre del 2000 e sempre prodotto e distribuito per il mercato domestico e casalingo.
"Ju-On" forse rappresenta davvero il cuore pulsante del filone J-Horror, il picco creativo dello stesso, un punto di non ritorno che di fatto non sarà mai eguagliato.
Laddove "Ringu" presentava una commistione tra tradizione folkoristica arcaica e tecnofobia moderna, "Ju-On" è invece la declinazione in chiave moderna della tradizione. La tematica della "casa infestata" viene ripresa non tanto dal folklore popolare, quanto da quello di tradizione shintoista: quando una o più persone muoiono in circostanze brutali, la rabbia generata dal misfatto (Ju-On) infesta il luogo in cui questo è avvenuto (definito "Ku-On", ossia "nove rancori", dove il numero nove nella tradizione nipponica è sinonimo di infinito) intrappolando in fantasmi al suo interno, il quali, in maniera non dissimile dagli onryo pagani, uccidono chiunque vi si avventuri (situazione che in occidente è stata a suo modo declinata da Stephen King dapprima in "Le Notti di Salem" e poi, più approfonditamente, in "Shining").
Ma Shimizu va oltre la tradizione e presenta una maledizione che non ha confini perimetrali. I fantasmi della famiglia Saeki possono spostarsi anche nel mondo esterno alle mura nelle quali sarebbero intrappolati e chiunque resti vittima della sua furia diventa a sua volta uno spettro vendicativo in grado di perseguitare le sue vittime anche fuori dalla casa originaria. Non c'è quindi scampo a questo male, né esistono spazi sicuri nei quali rifugiarsi.
Anzicchè rifarsi alla classica storia di indagine, Shimizu opta per una narrazione non lineare, alternando il punto di vista dei vari personaggi che vengono in contatto con la casa dei Saeki. Il motivo della maledizione passa in secondo piano, accennato solo in qualche linea di dialogo, il fulcro diventano le sorti dei malcapitati di turno.
Il piano temporale viene così alterato: si parte letteralmente in medias res, con la giovane assistente sociale Rika (Megumi Okina) che scopre il lascito della strage della famiglia Tokunaga ad opera dei Saeki, per poi tornare indietro ai giorni di Katsuya Tokunaga (Kanji Tsuda) e su come lui e la moglie siano caduti vittima dello spettro di Kayako (Takako Fuji), per poi tornare di nuovo al presente con le indagini della polizia, corroborate da Toyama (Yoji Tanaka), ex poliziotto che ha indagato sulla strage dei Saeki, andare avanti di una decina d'anni per assistere alle azioni di sua figlia Izumi (Misa Uehara) e tornare nuovamente al presente con una chiusa nuovamente su Rika e la sua amica insegnante Hitomi (Misaki Ito). Una semplice storia di fantasmi riesce così a trovare una forma di interesse in un racconto che cattura l'attenzione e porta lo spettatore a chiedersi come questi personaggi interagiscano e fino a che punto Kayako e famiglia possano spingersi pur di perseguitarli.
La messa in scena adottata è anch'essa anticonvenzionale. Non c'è la ricerca di un'atmosfera cupa o di un mood spettrale, non si fa mai ricorso a simbolismi raccapriccianti o a scenografie opprimenti. La fotografia usa luci diffuse e raramente le ombre fanno capolino a tagliare le figure. Shimizu lavora di sottrazione, lascia che sia l'indole sinistra della storia e delle singole scene a catturare l'attenzione e i nervi dello spettatore e arriva persino a lasciare praticamente tutte le morti fuori scena. Scelta ardita, ma che si rivela vincente: nel suo incedere lento ma inesorabile, "Ju-On" riesce davvero a trasmettere un senso di tensione costante, dato dall'impossibilità di capire quanto possa davvero accadere, il quale risulta così più greve di quanto visto negli altri esponenti del filone.
Nella sua anticonvenzionalità, il cult di Shimizu si impone così all'attenzione sia dell ospettatore occasionale che di quello più smaliziato, configurandosi come quello che resta il miglior esito del J-Horror mainstream.
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