giovedì 27 ottobre 2022

Dark Water

Honogurai mizu no soko kara

di Hideo Nakata.

con: Hitomi Kuroki, Rio Kanno, Asami Mizukawa, Mirei Oguchi, Fumiyo Kohinata, Yu Tokui, Isao Yatsu, Shigemitsu Ogi.

Horror

Giappone 2002













---CONTIENE SPOILER---


Parlare di "eleveted horror" per indicare quelle pellicole del terrore nelle quali l'estetica e la narrazione di genere vengono subordinatate al racconto in maniera metaforica, come in film tipicamente recenti come "The Badabook", "Hereditary", "Midsommar" o "Men", è un atteggiamento ingiusto sia verso tutti quegli autori che hanno comunque usato il genere al fine di creare una critica sociale o lo hanno comunque adoperato come uno strumento espressivo per tematiche "filosofiche", senza mai rinunciare alle sue istanze più immediate (come George A.Romero, John Carpenter, David Cronenberg, solo per citare i più celebri), sia e soprattutto verso quei cineasti che hanno fatto un lavoro simile, ma in tempi non sospetti. E tra questi ultimi rientra sicuramente Hideo Nakata con il suo "Dark Water".




Sulla scorta del successo di "Ringu", Nakata viene chiamato a portare su schermo un'altra opera di Koji Suzuki, questa volta un racconto dell'antologia "Honogurai mizu no soko kara" , pubblicata sempre nel 2002; in una Tokyo piovosa e plumbea, la giovane madre Yoshimi (Hitomi Kuroki), fresca di divorzio, decide di rifarsi una vita assieme alla figlioletta seienne Ikuku (Rio Kanno). Ostracizzata dall'ex marito, trova una casa in un palazzo di periferia, la quale sembra perfetta, se non fosse per le infiltrazioni d'acqua; ma già dalla prima visita, Yoshimi intuisce come quello stabile nasconda un segreto oscuro...




Se "Ringu" era una ghost-story declinata come un procedural dove venivano innestate le tematiche dell'isolamento e dell'abbandono, "Dark Water" è invece un dramma a tutto tondo che declina in primis la tematica dell'abbandono e della solitudine, adoperando il sovrannaturale come pura metafora. L'interesse di Nakata (e Suzuki prima di lui) è totalmente rivolto al dramma umano di Yoshimi, di sua figlia e del fantasma della piccola Mitsuko.
L'acqua torna ad essere l'elemento portante; non più semplice viatico per l'aldilà, è elemento di morte nonché medium tra i vivi e morti. La pioggia batte costante sulle teste dei personaggi, proprio come in "Ringu", e nuovamente tende a sottolinearne la solitudine (oltre ad essere di cattivo presagio, come la tradizione nipponica vuole). Come l'acqua comincia a filtrare incontrollata nell'appartamento, anche lo spettro di Mitsuko inizia ad insinuarsi nella vita di Yoshimi; ma, ancora di più, come l'acqua corrode le pareti, allo stesso modo la mente della donna viene corrosa dalla paranoia data da un possibile male, un male del tutto terreno, quello della separazione della figlia, oltre che dello spettro del marito vendicativo, più ingombrante e spaventoso di quello ultramondano.




La mente della protagonista comincia a sgretolarsi, ad essere invasa dalla paura appunto al pari di come l'acqua filtra tra le pareti della casa. La paura di perdere la figlia, quell'unico appiglio verso una forma di normalità; cosicché Mitsuko diventa un doppio di Ikuko, con la sua scomparsa che diventa possibilità spaventosa.
Ed è proprio la caratterizzazione di Mitsuko che allontana "Dark Water" dal canone del J-Horror e dal cinema del terrore in generale: non una onryo, non uno spirito maligno, né una "demoniaca presenza", è in realtà un'anima persa che cerca quel contatto umano che le è mancato in vita; tanto che nel climax non si ha davvero un uccisione, quanto il rapimento di quella figura materna tanto agognata; la quale, a sua volta, non diventa un'entità diabolica, ma angelica, che veglia sulla vera figlia almeno sino all'adolescenza.




La regia di Nakata è qui più solida, più sicura nella costruzione della scena; e come da copione, con pochi strumenti scenografici riesce ad intessere un'atmosfera opprimente e lugubre. L'uso del colore giallo per i flashback, in una monocromia al solito opprimente, dona un tocco estetico ancora più pregnante, con il colore dell'acqua sporca come metafora di un passato oscuro.
Tanto che si potrebbe anche dire che "Dark Water" è forse un film più riuscito e interessante (oltre che compatto) di "Ringu", contro il quale perde solo in quanto ad iconicità: la visone di Sadako che fuoriesce dal televisore non ha qui un corrispettivo altrettanto potente; scelta in parte voluta, in parte limitata dalla storia, tanto che l'unica immagine volutamente potente è quell'esplosione di acqua nel climax, omaggio al celebre "ascensore di sangue" di "Shining", la quale però non ha forza espressiva e immaginifica sufficiente per saldarsi davvero nella memoria popolare.



Per il resto, "Dark Water" è un dramma a tinte sovrannaturali interessante e riuscito, un gioiello moderno forse troppo sottovalutato perché comunemente associato alla tradizione J-Horror, con la quale in realtà (quasi al pari di "Kairo") ha poco a che fare.



EXTRA

In un agghiacciante e drammatico caso di "vita che imita l'arte", la morte del personaggio di Mitsuko trova un suo corrispettivo reale nel caso della giovane Elisa Lam.
Canadese di origine cinese, la giovane ragazza si ritrovò, nel 2013, sola nel Cecil Hotel di Los Angeles. Affetta da forti disturbi psichici e tormentata dalla solitudine, in preda ad un raptus finisce per annegare nella cisterna d'acqua sul tetto dell'edificio. Il cadavere viene scoperto solo dopo che gli ospiti si lamentano della qualità dell'acqua corrente. Le sue ultime immagini, impresse dalle telecamere di sicurezza dell'albergo, la mostrano in stato confusionale e come inseguita da un'entità invisibile, risvolto suggestivo ma infondato che ha comunque catturato l'attenzione del pubblico.


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