venerdì 2 agosto 2019

Midsommar- Il Villaggio dei Dannati

Midsommar

di Ari Aster.

con: Florence Pugh, Jack Reynor, Will Poulter, Vilhelm Blomgren, William Jackson Harper, Ellora Torchia, Archie Madekwe, Gunnel Fred, Isabelle Grill, Henrik Norlèn.

Horror

Usa 2019













Un anno dopo l'esordio scoppiettante di "Hereditary", Ari Aster torna alla carica declinando nuovamente una storia sul lutto e la relativa elaborazione per creare un lungo viaggio lisergico all'interno della coscienza di un personaggio. "Midsommar", perso com'è nella contemplazione di usanze e emozioni, è un più che degno secondo capitolo nella sua filmografia, dove il suo stile ricercato diviene finalmente virtuoso, per non lasciare scampo allo spettatore.



147 minuti nei quali la regia costruisce la tensione in modo sottilissimo. Si parte da un primo atto che ha già in sé stesso tutta la base della narrazione: la morte improvvisa di quella famiglia abbandonata forse con troppa facilità. Si continua con la relazione amorosa fin troppo blanda per arrivare al Midsommar del titolo, festività pagana del nord della Svezia che ogni 90 celebra la ruota della vita e del tempo, il rinnovarsi delle stagioni della natura e con esse dell'essere umano.



Aster ricrea con precisione e gusto per la spettacolarità il piccolo villaggio nel quale il rito viene celebrato. Un luogo dove non cala mai il sole, dove i colori e la luce sono così vividi da ferire gli occhi. E dove, sopratutto, c'è qualcosa di inquietante che striscia sotto la superficie gioviale. Una paura per l'ignoto che viene centellinata un pò alla volta, svelandosi al contempo in modo fragoroso: prima avvisaglia è il suicidio dei due anziani, mostrato senza filtri, con i corpi disintegrati in piena luce.



L'arco caratteriale della protagonista Dani (Florence Pough) è così discendente, incardinato ad una serie di coordinate quasi prefissate, passando dall'interiorizzazione del lutto alla sua estrinsecazione totale, sotto le forme del rito della rinascita e della fecondità per giungere al lato più estremo, a quel sacrificio umano essenziale per una rigenerazione dei luoghi esterni così come quelli interiori. Ad Aster, ovviamente, non interessano i giudizi morali sull'operato del personaggio, tanto meno i risvolti prettamente psicologici; il suo è un viaggio dello spirito e nello spirito, verso quelle emozioni a lungo trattenute e pronte a deflagrare in ogni singolo momento.



Un viaggio che ha le forme di un trip allucinato, dove il virtuosismo della macchina da presa si mette al servizio della geometricità del rituale; geometricità che viene puntualmente infranta dal momento che il punto di vista sugli stesse è esterno, dato dal gruppo di ragazzi americani. La macchina da presa si muove così sinuosa tra le vesti immacolate e i prati che respirano a causa dello stato distorto della percezione, sino a trovare nelle soggettive un compromesso estetico e funzionale al racconto.



Se i debiti di ispirazione non vengono in realtà mai celati (i mitologici "The Wicker Man" e "The Texas Chainsaw Massacre"), Aster riesce lo stesso a creare una pellicola forte e visionaria, intimamente disturbante e al contempo affascinante, un'evoluzione perfetta di ciò che aveva mostrato al suo esordio e che fa presagire un futuro roseo per la sua carriera.

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