lunedì 5 febbraio 2024

The Holdovers- Lezioni di Vita

The Holdovers

di Alexander Payne.

con: Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da'Vine Joy Randolph, Carrie Preston, Brady Hepner, Ian Dolley, Michael Provost, Jim Kaplan, Naheem Garcia, Andrew Garrman.

Usa 2023















Si parla spesso, negli ultimi anni, di come il cinema americano abbia perso la sua capacità di parlare delle persone, di creare ritratti umani credibili o anche solo riusciti, preferendo spesso l'esagerazione o l'idealizzazione; o, anche, di come non riesca a creare storie con dei valori effettivi, sostituendo a questi un cinismo facile e comodo o, peggio, scadendo nel melenso, quando ci prova.
Alexander Payne, quest'anno, decide di ricordarci di come sia ancora oggi possibile fare un film con un vero "cuore umano", dove i personaggi siano credibili e empatici, non semplici macchiette usate per dare un qualche messaggio.




Inverno 1970. Alla Barton, scuola superiore privata per i rampolli delle ricche famiglie yankee, non tutti tornano a casa per le vacanze natalizie. Il professor Paul Hunham (Giamatti), insegnate di storia antica, passa come al solito le feste al campus dietro ai suoi libri. La capo-cuoca Mary (Da'Vine Joy Randolph) decide di non raggiungere la famiglia della sorella minore in ossequio al lutto per la scomparsa del figlio Curtis. Mentre lo studente Angus Tully (Dominic Sessa) si ritrova bloccato a scuola dopo che la madre, da poco risposatasi, cancella la vacanza organizzata in precedenza a causa degli impegni del neo-marito.



"Hodovers", ovverosia residui, pezzi di qualcosa lasciati indietro perché inutili. I tre protagonisti sono residui di un qualcosa che hanno avuto, perso o che non sono riusciti ad avere e si ritrovano ora isolati non solo fisicamente, abbandonati a loro stessi non solo all'interno di un istituto tagliato fuori dal mondo, ma soprattutto emotivamente.
Quel qualcosa è una famiglia e le relazioni affettive che essa comporta, istituzione che, in un modo o nell'altro, è a loro aliena. Tutti e tre sono genitori mancati o figli orfani. Paul surroga la mancanza di una relazione con la cultura, la quale diventa così un'ossessione per colmare un vuoto interiore che dice di non avere, ma che è in realtà avvertibile, con tale discrasia simboleggiata dal suo strabismo. Mary non ha ancora elaborato la morte del figlio, ucciso in Vietnam non ancora ventenne. Mentre Angus soffre per lo sgretolamento del suo nucleo famigliare, tematica centrale di tutta la storia.




E' la fine dei rapporti famigliari che porta alla crisi interiore (e esteriore) dei personaggi: il rapporto genitore-figlio, in particolare, quando reciso, distrugge il singolo. 
Anche gli altri studenti della Barton soffrono a causa di un ménage famigliare talvolta non idilliaco, come quello della promessa sportiva Jason, in lotta con il padre per il suo look para-hippie, o quello del coreano in trasferta Park, distrutto dalla lontananza forzata.
Per Angus la situazione è più complessa. Adolescente, ossia bloccato in quell'età dove la figura genitoriale è, volente o nolente, essenziale, si ritrova senza un padre e con una madre che lo ha letteralmente abbandonato a sé. Da cui la sua spasmodica ricerca di una figura affettiva che trova (anche se solo alla fine) in Paul.




Paul, dal canto suo, è un uomo senza legami e dei quali apparentemente neanche sente la necessità. A differenza degli altri due protagonisti, si è costruito un ideale Eden nel quale sguazza compiaciuto della sua superiorità intellettuale sul prossimo. Non un cinico, quanto un uomo deluso dalla vita (l'incidente che lo ha portato ad essere cacciato da scuola in gioventù) che ha deciso di non coltivare rapporti umani che siano tali a causa di quel dolore ancora avvertibile, anestetizzato con litri di Jim Bean. Tanto che persino quella redenzione finale non è una forma di ripensamento, quanto un atto di coerenza verso la missione intellettuale e lavorativa. Con lui, Payne non vuole raccontarne la trasformazione da "orso" a uomo, quanto descriverne l'indole a suo modo empatica, la quale nasconde un'anima pulsante già quando sotterrata dallo sprezzo verso il prossimo. Il suo rapporto con Angus diventa così quello di un mentore, non di un padre, che ne capisce le necessità e decide di aiutarlo non per aiutare se stesso, quanto una persona dalle grandi potenzialità.
La storia di Mary, d'altro canto, avrebbe forse necessitato più spazio. Il suo è un semplice racconto di lutto, l'elaborazione della perdita del primo e unico figlio la quale passa per tutti gli stadi possibili, compreso il rigetto momentaneo di un nuovo amore. Nulla di nuovo, né di particolarmente profondo, ma tale parte della narrazione riesce lo stesso a convincere grazie alla scrittura e alla buona performance di Da'Vine Joy Randolph.
Ed a convincere in generale è soprattutto il tono usato nella narrazione: non si ricerca mai l'effetto drammatico ad ogni costo, non si scade mai nel melò puro, anzi, come nel miglior cinema umanista, si lavora spesso di sottrazione, lasciando che le scene risultino efficaci grazie alla sottigliezza di scrittura e alle interpretazioni.




Come Bogdanovich in "Paper Moon", anche Payne opta per una messa in scena che riprenda i crismi del cinema dell'epoca in cui si svolge la storia, soprattutto nell'estetica. L'apertura del film con i loghi d'antan delle case di produzione genera già da sé un'atmosfera retrò, acuita poi dall'uso del filtro pellicola, che fa sembrare tutto il film girato in analogico, tanto che la scelta di girarlo di digitale appare persino stramba. L'uso di obiettivi zoom e panoramiche permette un'ottima ricostruzione dell'effetto vintage, ma fortunatamente la regia non si appiattisce mai sulla pura exploitation, sulla ricerca di un'estetica datata per il solo gusto di. 
L'attenzione di Payne è in realtà perennemente rivolta ai personaggi, alla storia più che al racconto, tanto che alla fine tale scelta estetico-stilistica finisce davvero per risultare gustosa e non pedante. Soprattutto, alla fine sembra quasi voler stabilire una dichiarazione politica con un rimando a quel periodo storico nel quale il cinema americano era davvero lo specchio della gente comune.




"The Holdovers" è così un dramma intimista riuscito ed empatico, che riesce davvero a comunicare una sensazione di gentilezza portando in scena dei drammi credibili. Come il miglior cinema umanista sa fare, forse ancora oggi.

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