con: Koji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Miyako Tanaka, Long Mizuma, Soraji Shibuya, Bummei Harada, Min Tanaka.
Giappone, Germania 2023
Durante la visione di un film come "Perfect Days", torna prepotentemente alla mente la questione mai sopita sulla effettiva sincerità che un autore riversa in una sua opera; per inciso: quanto può essere credibile Wim Wenders con un film del genere?
Perché basta dare anche solo un'occhiata alla sinossi per avere qualche dubbio: il sig. Hirayama (Koji Yakusho) è un sottoproletario della odierna Tokyo. Senza moglie, né figli e giunto ad età avanzata, passa le sue giornate lavorando come addetto alle pulizie nei bagni pubblici e il tempo libero ascoltando vecchie musicassette di Lou Redd e Patti Smith, curando delle piantine, leggendo vecchi libri in formato tascabile o fotografando le foglie degli. Ed è felice, forse.
Una storia che sembra uscita da un indie americano della seconda metà degli anni '00, nel mezzo del movimento mumblecore e agli albori dell'affermazione della "cultura" hipster, con l'esaltazione della semplicità sia umana che materiale, oltre che di quella formale nella messa in scena; e che magari all'epoca sarebbe stata opera di qualche filmmaker ventenne e al suo esordio nel lungometraggio.
Wenders, d'altro canto, ha quasi ottant'anni e oltre cinquant'anni di più che onorata carriera come autore cinematografico. Un uomo che ha avuto tutto, dai premi materiali al riconoscimento effettivo dell'importanza della sua opera filmica già negli anni '70, quando era considerato uno dei tre massimi registi tedeschi (assieme a Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder); e che nel 2011 ha persino firmato un documentario in 3D su Pina Bausch che gli è valso gli allori di tutto il mondo dello spettacolo, oltre che l'onorificenza della presentazione dinanzi ad Angela Merkel, all'epoca primo ministro.
Si può dire quello che si vuole dei suoi film e della sua effettiva caratura come regista, ma non si può negare che abbia avuto una carriera blasonata e importante, che gli è valsa ogni singolo riconoscimento possibile (ad eccezione dell'Oscar, per quel che può valere). Si può quindi credere ad una storia del genere raccontata da una persona simile?
Perché non si capisce davvero cosa un auteur affermato arricchitosi facendo quello che gli piace possa trovare di bello nella vita semplice di Hirayama e nella sua solitudine autoimposta. Le similitudini tra il personaggio e l'autore ci sono: entrambi hanno uno spiccato senso artistico verso le immagini ed entrambi vengono dal lusso. Hirayama è in un certo senso l'alter ego che Wenders vuole farci credere vorrebbe essere, un uomo che ha rinunciato a tutti i privilegi in una sorta di esilio dai rapporti umani, il che, oltre che i dubbi sull'autenticità, fa anche sorgere dubbi sul perché tale personaggio abbia deciso di eliminare ogni rapporto umano.
Nella sottotrama sulla nipote Niko (Arisa Nakano) si intuisce che qualcosa di brutto è accorso con la sua famiglia e che lo ha portato ad isolarsi dal resto del mondo. Wenders non approfondisce nulla in merito, lasciando che sia lo spettatore a farsi una sua idea a riguardo, privando però la narrazione di profondità effettiva. Anche perché guarda sempre al suo personaggio con occhio benevolo.
Hirayama schiva i rapporti umani e si limita a fissare il riflesso del mondo. Le ombre e la luce che filtra le foglie, catturata dall'occhio di una vecchia Olympus a rullino (ancora la feticizzazione del vecchio) sono i suoi veri interessi. Le persone che lo circondano, d'altro canto, sono viste con tanta curiosità quanto con distacco estremo: il sottoposto Takashi (Tokio Emoto) e la sua strampalata love-story con la giovane patita di musica d'antan Baby (Aki Kobayashi), l'anziano barbone che vagabonda per il parco e le strade così come la giovane donna compagna di spuntino al parco o il ragazzino portatore d'handicap sono meteore che ne attraversano la vita e che lui è sempre sul punto di incrociare, solo per poi decidere di allontanarvisi. L'opportunità di stringere rapporti c'è sempre, ma viene evitata; la volontà in apparenza c'è anche, vista la sua buona predisposizione verso il prossimo, l'apertura umana verso chi è in stato di bisogno, ma la solitudine viene sempre preferita. Tanto che il rapporto più stretto, alla fine, lo stringe con l'anonimo con cui gioca una partita a tris a distanza. Persino quello con la nipote (la cui dinamica non può che portare alla mente quella alla base di "Alice nelle Città") è un episodio isolato che alla fine non ne intacca la vita più di tanto. L'unica eccezione è data dalla scoperta dell'ex marito della padrona del ristorante dove è solito cenare, con cui intesse un rapporto umano dato proprio dalla solitudine e dal rimpianto.
Quella di Hirayama è una solitudine placida, che Wenders decide di colorare con l'ombra del dubbio solo nel finale. Per oltre due ore non fa che esaltarne lo spirito gioviale, descriverne la routine ripetitiva in modo simpatico, guardare ai suoi gesti ripetuti all'infinito con una curiosità invidiosa, intessendo un racconto sempre ai limiti dell'ipocrita e privo di quella drammaticità necessaria a rendere davvero dubbiosa la predilezione del protagonista verso l'isolamento.
Anche perché tale racconto è ambientato in una Tokyo dove i rapporti umani sono tutti a rischio, proprio come viene qui mostrato. Non per nulla, quella giapponese è da decenni la società più alienante al mondo, dove si arriva letteralmente a morire di solitudine (come raccontava Kyoshi Kurosawa qualche decennio fa). Sottolineare la bellezza di una vita solitaria in un contesto del genere, mostrandone per altro la piena contezza, non fa che aumentare la dose di ipocrisia.
Perché alla fine è questo che fa Wenders: mostra la solitudine in modo anche sinistro, rivelando come tra le piaghe di una vita del genere ci sia sempre posto per il rimpianto verso un'unione umana e materiale che si è a lungo evitata. Ma descrive il tutto con tono cordiale e accondiscendente, guardando alla felicità data dalle piccole cose in modo estremamente positivo.
A Wenders va quantomeno riconosciuto il mestiere, l'aver saputo raccontare una storia piccola nel migliore dei modi, senza esagerare con le smancerie o con l'idealizzazione coatta della passione per le mode vetuste, nonostante il palese feticismo che dimostra (basti in proposito immaginare di quali orrori il film sarebbe potuto essere foriero se partorito dalla mente di un regista pseudointellettualoide nostrano); così come gli va riconosciuto il merito di sapere come portare in scena la bellezza metropolitana della capitale giapponese. Ma si tratta pur sempre di regista con decenni di carriera sulle spalle e che si era aggirato per le strade di Tokyo con "Tokyo-Ga" già a metà degli anni '80.
Un mestiere che, in definitiva, non salva un'opera davvero poco credibile.
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