di Denis Villeneuve.
con: Timothée Chalamet, Zendaya, Javier Bardem, Rebecca Ferguson, Austin Butler, Stellan Skarsgaard, Josh Brolin, Dave Bautista, Christopher Walken, Florence Pugh, Souheila Yacoub, Charlotte Rampling, Léa Seydoux, Giusi Merli, Anya Taylor-Joy.
Fantascienza
Usa, Canada 2024
---CONTIENE SPOILER---
Se l'accoglienza positiva da parte di critica e fans era prevedibile, l'effettivo successo di botteghino del primo "Dune" di Villeneuve era tutt'altro che scontato. Un riscontro che è tardato ad arrivare, complice la complessità del film e soprattutto il periodo in cui è stato distribuito, ossia quello immediatamente successivo alla chiusura dei cinema causa Covid-19.
Quattro anni dopo, "Dune- Parte Due" arriva in sala con un carico di aspettative a confronto delle quali quelle che circondavano il primo non sono nulla, data la sua natura di seconda parte di una storia che trova qui trasposti i suoi momenti migliori. E il lavoro di Villeneuve, benché imperfetto, è a dir poco imponente.
Arrakis. Paul Atreides (Chalamet) si è unito agli indigeni Fremen a seguito della distruzione della sua casata ad opera dei rivali Harkonnen, foraggiati dall'imperatore Shaddam IV (Christopher Walken). Unitosi sentimentalmente con Chani (Zendaya), prende in mano il suo ruolo di messia e leader, guidandoli in guerra contro gli invasori, mentre sua madre Jessica (Rebecca Ferguson) ne diventa la leader spirituale, salendo al rango di reverenda-madre Bene-Gesserit. Ma l'imperatore ha un asso nella manica: Feyd-Rautha Harkonnen (Austin Butler), rampollo della casata e nipote del barone (Stellan Skarsgaard), raggiunge sul pianeta il cugino Rabban (Dave Bautista) per sfogare la sua vena sadica sugli insorti.
Come nel primo film, l'opera di adattamento è tanto libera quanto fedele al capolavoro di Herbert.
La divisione in due parti della storia (per un totale complessivo di cinque ore e mezza in due film) permette a Villeneuve di concentrarsi maggiormente sui personaggi, le loro emozioni e il loro ruolo negli eventi. In "Parte Due" al centro di tutto vi sono le dinamiche tra Paul e le due donne della sua vita, ossia la madre Jessica e Chani, suo unico vero amore.
Il ruolo della prima è quella del demiurgo junghiano (e la divisione in archetipi torna qui già come accadeva in "Blade Runner 2049"), un falso dio manipolatore, una figura religiosa che perora lo status di finto messia del figlio per perseguire il proprio riscatto (archetipo nel quale può rientrare anche il ruolo dell'imperatore Shaddam IV, tiranno manipolatore). In tale ottica, Paul è all'inizio ancora il leader riluttante perché cosciente della sua stessa pericolosità nonostante sia deciso a il proprio piano di vendetta. Ma quando alla fine decide di seguire la via tracciata dalla madre, è lui stesso a divenire incarnazione del demiurgo, una finta divinità che muove il mondo verso la catastrofe.
Quella con Chani, d'altro canto, è una love-story tout court, con i due ragazzi che provano un'attrazione irrefrenabile che culmina nell'amore, proprio come avveniva nelle pagine del libro. Pur tuttavia, Villeneuve decide stranamente di chiudere il film con un'immagine straniante, ossia una Chani che in questa versione non accetta il matrimonio di convenienza di Paul con Irulan e fugge via furiosa. Un'immagine da teen-drama a là "Hunger Games" piuttosto che quella della trasposizione di uno dei romanzi di fantascienza più adulti e complessi mai concepiti, che getta un'ombra sulla concezione effettiva che l'autore ha della storia e dei suoi personaggi. Un'immagine brutta, che cozza con un contesto nel quale l'intero universo si avvia verso la distruzione e che risulta infinitamente alienante a causa del fatto che, per il resto, Villeneuve sembra aver capito profondamente l'opera di Herbert.
Poiché qui come non mai, "Dune" diventa una parabola sui falsi leader, siano essi strettamente politici o anche religiosi, i falsi profeti che manipolano i popoli con la forza dell'inganno o con il pugno di ferro generando solo orrori.
Paul Muad' Did Atreides è un manipolatore, o per meglio dire un burattino che spezza i propri fili (quelli che dovrebbero legarlo al Bene-Gesserit) per poi rinsaldare quelli con cui stritola i fedeli, coartandoli in una crociata per vendicare il proprio casato. Il "cammino dell'eroe" non esiste perché non è un eroe, né un antieroe, solo un leader che utilizza il suo carisma per il suo tornaconto, un vero e proprio colonizzatore (da cui la differenza con il colonnello Lawrence che ispirò la creazione, il quale invece pare tenesse davvero all'emancipazione del popolo arabo). I suoi seguaci e sudditi sono in primis sue vittime, strumenti di un gioco di potere e per questo figure usa e getta nel contesto della guerra, solo armi pregiate la cui importanza è data dalla loro forza.
Stilgar diventa così un fanatico (il cui ruolo è praticamente una versione sinistra di quello che Morpheus ricopriva nei seguiti di "Matrix") accecato dalla sua stessa fede, un credulone in grado di distruggere tutto ciò che ha innanzi se spinto dalla fede nel falso profeta. E ciò in un mondo dove non esisteste manicheismo tra giusto e sbagliato.
Nel romanzo la divisione, di fatto, non era tra bene e male, ma tra un male assoluto (gli Harkonnen) e uno in apparenza più tollerabile (la teocrazia di Muad' Dib); in questa trasposizione, a tratti la differenza tra i due è fluida fino a confondersi, visto anche il ruolo d Feyd-Rauta. Qui archetipo dell'Ombra, è ancora di più un'antitesi di Paul (tanto che Villeneuve gli fa persino subire l'ordalia del Gom Jabbar), ma non la sua totale negazione: sempre crudele ed efferato, ha ora un codice d'onore e una forma di rispetto verso la casata e persino verso lo zio che nelle pagine di Herbert non aveva; il che lo rende certamente meno memorabile, ma decisamente più riuscito come doppleganger.
Una dualità speculare che trova una perfetta rappresentazione in quella che potrebbe essere la doppia immagine simbolo dell'intera saga: la pila di cadaveri Atreides arsa a inizio film dagli Harkonnen all'indomani della loro vittoria e quella dei cadaveri Harkonnen arsa durante la battaglia finale dai vittoriosi Fremen.
L'ammonimento di Herbert verso quelle figure che per loro natura vengono attratte dal potere risalta potente, anche se la trama del romanzo viene semplificata in modo strambo.
Le variazioni sono diverse, ma nessuna di esse appare davvero giustificabile da un punto di vista della storia o del racconto, lasciando lo spettatore che conosce il romanzo alquanto perplesso. Strana è la trovata di accorciare la durata della crociata su Arrakis, che dura giusto un paio di mesi, con la conseguenza immediata che il personaggio di Alia non viene alla luce, apparendo solo in una visione con il volto, bello ed ipnotico, di Anya Taylor.-Joy, cambiando, di conseguenza, la morte del barone Harkonnen e privando la risoluzione degli eventi di uno dei momenti più spettacolari. Anche la trovata di far duellare Gurney Halleck con Rabban appare alquanto strana: uno scontro che dura giusto una manciata di secondi e che aggiunge pochissimo alla storia.
Decisamente bizzarra è poi la chiusa, con la dinamica finale tra i personaggi e l'inizio della jihad che viene cambiato d'ordine: Paul non reclama il trono per evitare una guerra più sanguinaria, ma lo fa per umiliare ulteriormente l'imperatore; la guerra santa prende subito le mosse contro la totalità del Landsraad, avverando il più atroce dei futuri, che nel romanzo veniva preconizzato ed schivato. Il che cozza decisamente con quell'immagine di una Chani delusa e arrabbiata che corre via, a sminuire una tragedia di potata universale concentrandosi su di una semplice ragazza sedotta e tradita da uno straniero.
Quando però deve dare corpo al mondo di Herbert, Villeneuve si dimostra sicuro di sé. L'estetica industriale e razionalista dona un tocco di carattere alla sua visione rendendola unica e preservando lo stesso la necessaria carica spettacolare di scenografie e costumi. La costruzione delle scene è sicura e tocca vertici di spettacolarità talvolta con poco, come il combattimento iniziale dove il culmine dello spettacolo è dato dal semplice volo delle truppe Harkonnen. Quando invece il livello deve alzarsi, la regia non si tira indietro, con una battaglia finale roboante, da degno kolossal hollywoodiano.
Alcune trovate sono poi ineccepibili, come il sole nero di Giedi Primo la cui luce toglie colore ai corpi, in una giustapposizione tra monocromia e policromia semplicemente bella (anche se al cinema si era già vista in "Thor: Love & Thunder" e per certi versi nella tempesta di sabbia in "Mad Max- Fury Road"); o anche il duello finale, con la luce del crepuscolo che oscura i corpi di Paul e Feyd-Rautha, altro esempio di semplicità altamente spettacolare.
Le intuizione di Villeneuve sia come narratore che come creatore di immagini sono a tratti ineccepibili. Tanto che spiace constatare come il suo "Dune" sia bello, ma non il capolavoro che avrebbe potuto essere, sia se preso come opera a sé stante, sia se considerato come trasposizione di un capolavoro letterario.
Tolte alcune bizzarre scelte narrative, il difetto più grosso della sua visione resta nell'aver optato per un racconto spettacolare, ma non visionario, dove la componente onirica e lisergica, essenziale per la sua effettiva memorabilità, è ridotta all'osso se non a meno. Tanto che l'adattamento di Lynch, per quanto flagellato da un montaggio barbaro e alcune trovate fin troppo sopra le righe, resta ad ancora oggi per certi versi superiore, quanto meno per la sua capacità di dare forma alle elucubrazioni più selvagge di Herbert.
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