con: Jeffrey Wright, Tracee Ellis Ross, John Ortiz, Erika Alexander, Sterling K.Brown, Leslie Uggams, Adam Brody, Keith David, Issa Rae, Myra Lucretia Taylor, Miriam Shor, Patrick Fischler.
Commedia
Usa 2023
L'ossessione per l'inclusivismo e la rappresentazione di etnie "marginalizzate" ha fagocitato l'intera industria dell'intrattenimento americana da almeno dieci anni a questa parte, divenendo una fissazione per produttori, creativi e per il pubblico supersensibile. Ma questo ha davvero portato ad una rappresentazione più corretta di quelle realtà e di quelle vite "non bianche"?
Un quesito che ha mosso Cord Jefferson, regista al suo esordio ma che ha lavorato ampiamente come sceneggiatore, soprattutto televisivo. E se si dà una scorsa alla sua carriera, si nota immeditatamente la sua partecipazione a quella ridicola minieserie tratta da "Watchmen" che faceva del razzismo sistemico il suo tema portante, senza però riuscire a dire nulla di nuovo o anche solo di profondo. Un'esperienza che deve averlo segnato nel profondo, tanto che "American Fiction" potrebbe esserne la conseguenza diretta.
Un adattamento del libro, parzialmente autobiografico, "Erasure" di Everett Percival che già nel 2001 affrontava la tematica di come un'industria fatta da e pensata per bianchi percepisca e decida di rappresentare le storie degli afroamericani, i quali a loro volta vengono percepiti esclusivamente come poveracci, perdenti e criminali.
Thelonious "Monk" Ellison (Wright) è uno scrittore di romanzi storici e professore universitario di letteratura di lungo corso, il quale non riesce più a trovare un editore che pubblichi gli scritti. Dopo essere stato sospeso a causa di un battibecco con una studentessa "woke", ritorna presso la famiglia, anche per prendersi cura della madre Agnes (Leslie Uggams), afflitta da un'incalzante sindrome di Alzheimer. A causa degli alti costi dovuti per le cure, Monk decide di compiere una mossa azzardata, ossia scrivere un libro che racconti la storia di un afroamericano con tutti gli stereotipi possibili e immaginabili, spacciandola persino come un'autobiografia. Il successo, così, finalmente arriva.
La prima sequenza è illuminante: Monk tiene una lezione di letteratura nella quale si discute di un romanzo che ha la parola "negro" nel titolo; una studentessa dai capelli colorati e in sovrappeso si lamenta del fatto che quella parola è offensiva, ma lui le risponde che se un nero non si offende, neanche lei dovrebbe; al che la ragazza scappa via in lacrime e lo denuncia al preside di facoltà.
Una dinamica ridicola, che sembra uscita dalle pagine del purtroppo ineludibile saggio "I find that offensive" di Claire Fox e che smaschera subito l'ipocrisia di una generazione che trova offensivo tutto senza neanche saper razionalizzare il perché. Ed è in tale dinamica che Jefferson racchiude il cuore del film e traspone il nocciolo duro della riflessione di Percival, aggiornandola agli anni '20: non conta ciò che è offensivo, ma ciò che viene percepito tale, non conta chi davvero si offende per qualcosa o perché, conta solo l'opinione di chi ha deciso di farsi portavoce degli oppressi, senza però capirne le effettive necessità o anche solo conoscerne lo status Non conta, quindi, ciò che un afroamericano pensa o vive, ma ciò che la società (bianca o meno) si aspetta che lui pensi e provi.
L'intera società, di conseguenza, è drogata dagli stereotipi, vivendo su aspettative basate su di una narrazione perorata dal mercato per il solo fatto che il pubblico accetta una tale visione. Una visione di pura comodità, che aiuta i bianchi a fare pace con i propri sensi di colpa. Per intenderci: gli afroamericani sono marginalizzati e vivono vite difficili, dandone una rappresentazione simile e premiando detta rappresentazione, la coscienza dei più viene smacchiata.
Ma gli afroamericani, inutile dirlo, non sono tutti degli spacciatori senza padre che muoiono per mano della polizia. La vita di Monk, di fatto, non è diversa da quella di un qualsiasi bianco membro della middle-class, con una madre bisognosa di cure, l'elaborazione del lutto per una sorella morta all'improvviso, la notizia dell'omosessualità del fratello, una nuova storia d'amore e la delusione verso un ambiente letterario-culturale (ovverosia lavorativo) che non lo accetta.
Tutto "American Fiction" si basa, in pratica, sulla dicotomia tra aspettativa, realtà e correlativa rappresentazione. Al pubblico non interessano i veri drammi dei veri afroamericani, oramai (e da decenni) troppo simili ai loro, interessa solo lo stereotipo di una cultura gangster che da effettiva rappresentazione di un disagio è divenuta finzione universalmente accettata come vera e per questo più finta del finto.
Agli autori, di conseguenza, non resta che adeguarsi; la spinta per creare "Fuck", il romanzo-barzelletta che scimmiotta tutti i luoghi comuni del caso ma viene percepito come autentico, arriva non per niente dall'esperienza della collega e rivale Sintara Golden, anch'ella rampolla della classe media, la quale ha però scritto un romanzo (chiamato "We lives in da ghetto") talmente stereotipato da sembrare una parodia, ma concepito prima ancora che percepito come assolutamente veritiero. E se Monk si adegua per pura necessità, il biasimo del personaggio così come quello degli autori è tutto verso quei neri americani che credono che l'unica rappresentazione possibile sia quella data, per l'appunto, da stereotipi vecchi di decenni. Non per niente, la scena in cui Sintara legge un estratto del libro è costruita come uno sketch del "Saturday Night Live", con i dialoghi dei personaggi del romanzo che sono la pura parodia di un dialogo tra neri.
Il dito è ovviamente puntato verso quei bianchi che accolgono come vera ogni storia raccontata da un nero. Ma anche verso quegli autori che decidono di raccontare solo quelle storie che i bianchi vogliono sentire 8come esplicitato nella scena in cui i giudici del premio letterario si compiacciano dell'onorificenza data a "Fuck"). Il biasimo è certamente verso il mercato e le sue regole, verso quel pubblico di "drogati di stereotipi" ai quali è facile vendere sempre la solita sbobba, ma anche e forse soprattutto verso quegli autori che perorano una visione vetusta per la propria affermazione.
Pur tuttavia, una rappresentazione differente è davvero possibile?
E' da questo punto di vista che "American Fiction" incontra un limite forse neanche immaginabile.
E' vero che Jefferson porta in scena una storia che vuole rifuggire i luoghi comuni, ma alla fine decide lo stesso di usarne qualcuno; se la descrizione di Monk e dei suoi piccoli/grandi drammi è verosimile, del tutto stereotipata è la sottotrama sul fratello Clifford, il quale ha da poco scoperto la sua omosessualità e affronta i suoi problemi con la cocaina e i ragazzetti, ossia come il cliché di un borghese americano medio farebbe.
Il paradosso lo si raggiunge con le nomination agli Oscar, in merito alle quali non si capisce se L'Academy abbia deciso di fare buon viso a cattivo gioco o se sia composto da membri troppo stupidi per accorgersi di come il film li prende in giro. Jeffrey Wright e Sterling K.Brown danno delle buone performance, ma non certamente quel tipo di interpretazioni che andrebbero premiate come le migliori in assoluto, anzi non c'è nulla qui più di quanto non abbiano già fatto in altre pellicole (talvolta persino più meritevoli); la sensazione di ruffianeria sia ha soprattutto con Brown, che sembra aver ricevuto la nomination solo a causa dell'omosessualità del personaggio, ricadendo nel luogo comune che affligge tante premiazioni statunitensi. Ad essere del tutto onesti, l'unica nomination davvero meritata è quella per la sceneggiatura e sarebbe davvero un peccato se non vincesse.
La cosa ridicola la si nota se si tiene conto del tema del film, ossia di come una rappresentazione fasulla venga osannata; e vedendo le scene tratte da "Fuck" non può che tornare alla mente quel "Moonlight" tanto ruffiano quanto amato, tanto truce quanto codardo, tanto drammatico quanto superficiale, che, unendo tutte le forme di dramma possibile e immaginabile, ha fatto incetta di premi giusto qualche anno fa. Non sarebbe difficile immagine una scena di "American Fiction" nella quale Barry Jenkins entra in trattative per curare l'adattamento cinematografico di "Fuck".
Per il resto, il film soffre certamente dell'inesperienza di Jefferson come regista, con un ritmo talvolta troppo blando per una commedia e un tasso di causticità che avrebbe potuto tranquillamente essere più alto; ma l'onesta intellettuale dell'autore è tangibile e per questo il suo esordio resta interessante e risulta davvero intelligente.
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