con: Tom Hardy, Charlize Theron, Hugh Keys-Byrne, Nicholas Hoult, Riley Keough, Josh Helman, Zoe Kravitz, Rosie Huntigton-Whitley, Megan Gale.
Azione/Fantascienza
Australia, Usa (2015)
Quando si pensa a film che hanno rivoluzionato il concetto stesso di messa in scena, la mente vola sempre verso il cinema d'autore; raramente ci si accorge o si realizza in pieno come spesso anche pellicole prive di ambizioni artistiche siano riuscite ad imporre nuovi modelli stilistici ed estetici volti a riformulare da capo la grammatica filmica; e "Mad Max" (1979) è uno di questi film: un B-Movie vero e proprio, prodotto con il solo scopo di intrattenere un pubblico non proprio acculturato nel modo più semplicistico possibile e senza alcuna effettiva velleità di sorta. Eppure, quello che gli spettatori del '79 si trovarono in sala non era il solito filmetto d'azione ben girato e coreografato, ma un nuovo modo di concepire il movimento su schermo.
Non per niente, "Mad Max" è uno degli ultimi esponenti del cinema di genere australiano, quell' "Ozploitation" celebrata nello splendido documentario "Not Quite Hollywood" (2008) che si impose sin dai primi anni '70 come efficace concorrente del genere americano ed italiano, con i suoi film chiassosi, volgari e violenti; un modo di intendere il cinema totalmente asservito al puro divertimento, all'intrattenimento più basso possibile, dove spesso a contenuti minimali si affiancava una messa in scena magistrale in grado di rendere anche le storie più stupide altamente interessanti.
Il suo creatore, George Miller, è un personaggio già di per sé abbastanza sui generis; regista lanciato dalla sua creatura ad Hollywood dove si dedica ad una serie di progetti che con l'action non hanno nulla a che vedere, come la commedia sulla guerra dei sessi "Le Streghe di Eastwick" (1987), il dramma umano "L'Olio di Lorenzo" (1992), la splendida favola "Babe- Maialino Coraggioso" (1995) e il suo dirompente sequel "Babe va in Città" (1998), sino a giungere al musical animato con i due "Happy Feet", che gli hanno permesso persino di conquistare un Oscar. Una carriera che definire eclettica sarebbe riduttivo, vista l'efficacia con cui ha saputo dirigere anche le sue opere meno riuscite.
Ma il suo nome resterà indelebilmente legato alla saga di Mad Max e al modo in cui ha saputo gestire già all'interno della stessa influenze, registri ed archetipi totalmente differenti tra loro per creare tre film collegati solo dal protagonista, il quale a sua volta cambia il proprio ruolo in ogni pellicola.
Miller comincia a sviluppare l'idea del primo film a soli vent'anni, mentre lavora come medico in un ospedale vicino ad una delle highways australiane; ogni giorno il giovane George aveva a che fare con feriti e morti dovuti ad incidenti stradali; la passione dei giovani australiani per le auto truccate e la vastità degli spazi erano un binomio letale, che portava in quegli anni ad un tasso di crescita incontrollato di tragedie sul bollente asfalto.
Scioccato da una tale esperienza e fortemente ispirato dai vengeance movies americani, in particolare dal cultissimo "Il Giustiziere della Notte" (1974), Miller scrive di suo pugno la sceneggiatura e grazie ai fondi pubblici riesce a mettere su una produzione piccolissima, ma che gli permette di avere il pieno controllo sul prodotto e sopratutto la piena libertà di sperimentare. Al bando misure di sicurezza ed in sfregio ad ogni forma di censura, Miller gira inseguimenti mozzafiato con stuntman ed esplosioni tutti rigorosamente reali, mostra la violenza distruttiva delle deflagrazioni e dei capitomboli senza filtri, rischiando spesso di uccidersi o far morire parte del cast; ma il risultato è a dir poco eccezionale.
Auto e moto divengono protagoniste assolute di tutte le sequenze d'azione, corpi in perenne movimento che si inseguono, si scontrano, esplodono e si sfasciano di continuo; la distruzione del veicolo si fa violenza, la lamiera distrugge la carne dei personaggi, ne divora la statura e diviene tessuto vivente che si sostituisce ai personaggi per rubarne lo schermo; gli attori vengono rimpiazzati dai veicoli, i personaggi non hanno motivo d'essere una volta scesi dalle cavalcature, vere e proprie protesi meccaniche che ne definiscono ruoli e forza; tanto che ogni qual volta se ne separano, fanno una brutta fine.
E nel portare in scena il massacro, Miller si rifà alla canonica scuola australiana, imponendo al contempo uno stile ancora più cinetico e spettacolare; ogni inquadratura esterna alla corsa viene bandita: la macchina da presa è sempre ancorata ai mezzi e vi si stacca solo quando questi vengono distrutti; l'occhio dello spettatore si avvicina a ruote e lamiere in un gioco quasi sensuale per accarezzarne la sostanza, mai stata così viva su schermo grazie ad un uso maniacale dei grandangoli e delle panoramiche; e al contempo, corre a più non posso assieme ai personaggi: per restituire la sensazione di velocità, Miller arriva persino ad usare la camera a mano su di una vera motocicletta lanciata a 120 Km/h; e quando lo stesso personaggio viene ucciso, lo stunt è tra i più disturbanti apparsi su schermo: la motocicletta gli si schianta sul collo dinanzi ai nostri occhi, con il movimento enfatizzato dal ralenty.
La violenza raggiunge così un limite quasi insostenibile; il mondo del primo "Mad Max" non è ancora la landa post-apocalittica che viene comunemente associata alla serie, ma un futuro che è mera iperbole del presente, dove le strade sono invase da punk motorizzati che gioiscono nell'uccidere e da poliziotti rudi e violenti quanto i loro avversari; lo stesso Max viene introdotto come una figura distruttiva, uno sbirro taciturno e violento che non appare se non alla fine del primo inseguimento, dopo aver ucciso il temibile Night Rider costringendolo a schiantarsi; e una volta rivelatosi, lo spettatore non può che restare incredulo dinanzi alla sua figura: il temibile "bronzo" non è un truce e sfatto sceriffo alla John Wayne e non ha la faccia da duro di Charles Bronson; è un giovane uomo, ancora ventenne, con il volto di Mel Gibson.
Un uomo, Max, circondato dalla violenza e che usa la violenza come unico metodo possibile per salvare sé stesso e i suoi cari. Ma la violenza delle highways, della famosa "anarchy road" che vede gli scontri tra le Interceptors della polizia e le moto delle gang, non lascia spazio a nessuno; per vendicare l'uccisione del loro amico, il compagni del Night Rider, guidati dall'irsuto e animalesco Toecutter (Hugh Keys-Byrne), uccidono il migliore amico di Max e lo costringono a confrontarsi con sé stesso e i proprio limiti, fino alla decisione di abbandonare il corpo di polizia per restare accanto ai suoi cari. Decisione che lo porterà a perderli: nel mondo di Max la violenza e l'assassinio gratuito sono le sole regole, non ci sono eroi, né pace, solo vittime e carnefici; "Mad Max" cambia così pelle a metà film esatta e si trasforma in un film di vendetta; una vendetta turpe, violenta sino ai limiti del parossistico, ma mai compiaciuta.
La vendetta di Max, reso folle dalla violenza, non è giustizia, ma semplice castigo; un castigo che si fa via via più sadico man mano che i membri della gang di Toecutter vengono eliminati; un castigo irrogato con la meno ortodossa delle armi: l'automobile, il simbolo stesso di virilità che qui diviene sinonimo di morte; la bellissima V8 Interceptor (in realtà una Ford XB Falcon Coupe, tra le muscle car più ricercate al mondo) è la spada di Damocle di Max, con la quale decima tutti i barbari sino al climax più cattivo e sadico della storia del cinema, un omicidio, quello dell'imbelle Johnny the Boy, citato da decine di altri film (tra i quali il primo "Saw", per ammissione dello stesso regista James Wan), ma che ancora oggi è in grado di spiazzare per la crudezza con il quale viene architettato; e sopratutto a causa della performance stoica di Gibson.
Ma la vendetta di Max non viene celebrata come la riscossa del giusto: nell'ultimissima inquadratura, Miller lascia che siano gli occhi di Gibson a parlare, a farci comprendere come Max non abbia più uno scopo, come la violenza lo abbia privato di tutto e non gli abbia dato nulla, se non l'amarezza e la solitudine.
Successo di critica e pubblico in tutto il mondo, "Mad Max" portò alla ribalta non solo il nome di Mel Gibson ma dello stesso Miller, il quale decide tuttavia di restare a Melbourne per creare un nuovo film con protagonista il suo antieroe; non un semplice sequel, ma un'avventura del tutto nuova che ha come unico collegamento con il precedente film solo Max e il suo interprete.
"Mad Max 2" (1981) è la più grossa produzione australiana dell'epoca: ben 2 milioni di dollari che permettono a Miller e soci di girare l'intero film in costume, aumentare il tasso di spettacolarità degli inseguimenti ed ambientare il tutto totalmente nell'Outback. "The Road Warrior" (così ribattezzato in occidente) si impone come uno dei film più spettacolari di sempre e sopratutto come un manifesto di estetica, in grado di creare un look post-atomico imitatissimo.
Abbandonato il setting vagamente futuristico, Max si aggira ora in una terra desolata, sconvolta dalla guerra nucleare; nei postumi della distruzione, si aggirano ancora due categorie di persone: vittime e carnefici; quello di "Mad Max 2" è un west del futuro, dove al posto dell'oro è la benzina a rappresentare il bene conteso dalle due fazioni in lotta: da un lato la tribù bianca, arroccata attorno all'ultima pompa di petrolio in funzione; dall'altro gli Humungus, i selvaggi, residui della civiltà imbarbarita, punk che ora spadroneggiano guidati dal possente Lord Humungus, gigante muscoloso che parla con un accento simile a quello di Johnny Rotten.
Max si ritrova incastrato in una guerra tra fazioni, cambiando nuovamente caratterizzazione: ora è una versione post-apocalittica del pistolero senza nome di "Per un Pugno di Dollari" (1964), un uomo senza ideali, un solitario che viene dal nulla, muta gli equilibri di una comunità e poi ritorna nel nulla; un uomo non più folle, ma disilluso, che combatte solo per sé stesso finchè tutto quello che ha gli viene tolto; solo allora riscopre una forma di senso del dovere e decide di aiutare davvero i suoi compagni.
E Miller si rifà proprio a Leone per la messa in scena del suo western post-atomico: dialoghi ridotti all'osso per lasciare che siano le sole immagini ad essere protagoniste, con gli immensi spazi dell'Outback ad avvolgere personaggi e mezzi; e come colonna sonora, utilizza i rombi dei motori, ruggiti animaleschi che accompagnano le immagini per risaltarne il lato selvaggio. Nel finale, filma uno degli inseguimenti più spettacolari di sempre, un vero e proprio capolavoro di immagini montate in sequenza senza mai una sbavatura o un'inquadratura di troppo. Una rievocazione del classico assalto alla diligenza incredibile per tempistica, dove carni e lamiere si mischiano alla polvere in un crescendo di violenza e adrenalina unico.
L'estetica di "Mad Max 2" parte dallo spaghetti western per creare qualcosa di nuovo e mai visto prima; l'universo post-apocalittico viene immaginato come uno scarto del presente, un crogiolo nel quale i sopravvissuti si vestono con protezioni sportive usate come armature ed abiti di pelle semidistrutti come divise; il costume di Max verrà immediatamente copiato nella serie manga e anime di "Hokuto no Ken", così come il setting in generale, per poi essere ripreso in infiniti altri film ed opere multimediali. L'intuizione più stravagante e più azzeccata è però quella di dipingere il dopo-bomba come una terra di disperati dove i punks sono i nuovi barbari, gli indiani che assediano il fortino degli eroi, un incubo per i benpensanti che si ritrovano assediati dalla parte peggiore della società borghese promossa a perfetto predatore.
Superato persino il successo del primo capitolo, Miller sbarca ad Hollywood dove viene accolto a braccia aperte da Spielberg e soci per dirigere uno degli episodi dell'antologia "Ai Confini della Realtà" (1983).
Eppure l'ombra di Max e del suo mondo polveroso non gli lasciano scampo; appena due anni dopo è di nuovo nella natia Australia, dove forte di un budget ancora più elevato crea quello che sarebbe dovuto essere l'ultimo capitolo delle avventure del guerriero post-atomico: "Mad Max Beyond Thunderdome".
Capitolo minore nella serie, non tanto per la carica spettacolare, quanto per le incertezze stilistiche e narrative. In "Beyond Thunderdome" il west post-apocalittico lascia spazio ad una nuova civiltà, una sorta di Medioevo venturo dove le città sono governate da tiranni spietati ed egocentrici piuttosto che da selvaggi capi tribù.
Ritrovatosi a vagare senza un mezzo, Max si imbatte nella città di Bartertown, governata dalla regina Aunty Entity (un'affiatatissima Tina Turner, che per il film compone e canta la hit "We don't need another hero"), la quale lo coarta ad uccidere Master-Blaster, essere composto da due persone: Master, un nano che comanda il sottosuolo della città, dove viene prodotta l'energia a metano che le permette di funzionare, e il gigantesco Blaster, la sua guardia del corpo.
Miller dirige con mano sicura lo spettacolare duello nel Thunderdome, e il suo gusto per le inquadrature qui si fa ancora più raffinato e ricercato; ma a metà film decide di rallentare il ritmo concedendo troppo spazio alla mitologia della tribù di bambini; Max dovrebbe rivestirsi di una carica messianica e sovversiva, ma Miller non enfatizza tale lato, lasciando che il suo antieroe resti ancorato all'archetipo leoniano; la carica violenta ed anarchica viene annullata, tanto che a tratti sembra di vedere un Mad Max concepito e diretto da Spielberg piuttosto che dal creatore del truce film del 1979 alle prese con una rievocazione de "Il Signore delle Mosche".
Perso il fascino che lo contraddistingueva, "Beyond Thunderdome" non ha la forza espressiva e visionaria del suo predecessore, ma riesce comunque a stupire per la spettacolarità degli stunt, ancora oggi notevoli, anche se non ai livelli dei precedenti film.
Il progetto di "Fury Road" entra in cantiere ufficialmente nel 2004, con Mel Gibson di nuovo in sella come protagonista e Miller di nuovo pronto a ridare al suo mondo il fascino che aveva perduto. Sfortunatamente, una serie di sciagure degne di Terry Gilliam si abbatte sul progetto sin dal suo primo giorno di lavorazione; tra tutte, la più clamorosa fu il lungo inverno che trasformò gran parte dell'Outback in uno splendido giardino in fiore, location decisamente fuori luogo per le scorribande dei barbari del futuro.
"Fury Road"si trascina così per 11 anni, perde il suo protagonista storico, scartato perchè ormai troppo vecchio per essere credibile come eroe d'azione, ed esce esattamente 30 anni dopo "Beyond Thunderdome"; lunga attesa ripagata in toto.
"Fury Road" è un tornado, una tempesta che distrugge tutto ciò che incontra e ricrea da capo l'action con i rottami del passato.
Miller riprende l'inseguimento finale di "Mad Max 2" e lo espande per tutta la durata del film: un lungo, incredibile, feroce inseguimento che dura 120 minuti. Due ore durante le quali lo spettatore, al pari dei personaggi, viene risucchiato in un vortice ipercinetico fatto di azione e violenza, di colpi inferti e ricevuti, di veicoli che capitombolano, di corpi umani e meccanici che si fondono in una danza di morte magistralmente architettata ed eseguita, quasi una sinfonia di lamiere e carne in movimento.
Come il Kinji Fukasaku di "Blackmail is My Life" (1968), Miller estremizza il concetto stesso di velocità e di ritmo applicato alla narrazione; ogni scena è rapida, ipercinetica, quasi schizofrenica, furiosa come il titolo, ma mai sciatta; sin dal prologo, ogni azione, gesto, carattere dello sparuto gruppo di personaggi ed aspetto del mondo viene mostrato mediante movimenti di macchina o sequenze action; l'intera narrazione filmica viene ripensata in virtù del suo effetto spettacolare; persino i dialoghi servono a dare ritmo.
Ritmo che per le due ore non cala mai se non per brevissimo tempo, giusto per lasciare i personaggi e lo spettatore a riprendere il fiato, salvo poi ripartire in quinta verso un nuovo tratto del viaggio, una nuova parte dell'inseguimento, una nuova sequenza adrenalinica.
E nell'imbastire la furia di Max e soci, Miller gioca sempre pesantemente al rilancio, trovando sempre nuove soluzioni narrative per vivacizzare gli scontri, tra trampoli usati per abbordare i veicoli, amazzoni agguerrite, NOS sputato direttamente nella presa d'aria del motore e kamikaze folli ogni scena non è mai uguale alla precedente o alla successiva, ognuna vive di luce propria grazie ad un unico tratto distintivo.
Ed in barba alla scarnificazione stilistica degli odierni drammi post-apocalittici quali "The Rover" (2014) e "The Road" (2009), Miller crea il capitolo più visionario della sua saga; ogni aspetto del mondo di "Fury Road" è vivo, credibile e gronda di una creatività inusuale; i bolidi, non più accozzaglie di lamiere e motori, qui divengono mostri mutanti con V8 che crescono come tumori impazziti; i personaggi si dividono in classi, come le amazzoni o i "figli di guerra", ognuna contraddistinta da un'estetica propria ed originale; le tribù sono caratterizzate da tratti salienti e distintivi, come i proiettili di Bullet Town o il NOS il Gas Town; e su tutto, trionfa la ricostruzione del regno di Immortan Joe (Hugh Keyes-Byrne, l'ex Toecutter redivivo), nuovo eden comandato da un tiranno spaventoso, un patriarca sfatto e folle, ossessionato dall'eugenetica.
A contrastarlo troviamo un Max mai così simile a sé stesso, eppure distante anni luce dalle precedenti incarnazioni; sempre fisso sull'archetipo leoniano del pistolero senza nome e senza onore, ora acquista una forma di caratterizzazione psicologica grazie ai fantasmi del passato che lo tormentano e alla volontà di redenzione che lo attanaglia; e Tom Hardy, con il suo volto duro e lo sguardo espressivo si rivela una scelta felice per il nuovo Guerriero della Strada.
Max che è qui figura quasi ancillare nello schema della cose, affiancandosi a quella che è la vera protagonista del film, l'imperatrice Furiosa della bellissima Charlize Theron, nuova incarnazione della "donna macho" di weaveriana memoria, anch'essa declinata in chiave western, esprimendosi con pochissime parole e molti sguardi; Furiosa è l'emblema della società matriarcale generatrice di vita oppressa dal violento mascolino che riprende il suo posto di gerarca; per la prima volta, la fuga dei superstiti verso la terra promessa si infrange: non esiste più un Eden, un mare azzurro a cui fare ritorno; l'unico Eden è quello creato dall'uomo per sfruttare l'uomo e che nell'atto di ribellione viene sottratto al tiranno.
Riconquista del paradiso da parte della genitrice che non avviene tramite la mera contrapposizione uomo-donna, ma dalla collaborazione tra i due sessi: la riuscita del piano di fuga e ritorno si deve a Max e al figlio-di-guerra Nux, in un superamento del mero femminismo.
Al di là di eroi e tiranni, esistono solo carnefici, non più vittime, solo guerrieri e folli; la pazzia di Max si è estesa definitivamente a tutto e a tutti come la malattia che attanaglia i figli-di-guerra; coloro che sono sopravvissuti alle barbarie del dopo-bomba ora sono solo i forti o i folli, non più vittime, non più carnefici, solo una nuova umanità fatta da demagoghi, sottoposti e ribelli.
Un'universo, quello di "Fury Road", che Miller ricostruisce nel suo abituale Outback e che espande grazie ad un uso sapiente della Computer Graphic, qui usata solo come correttivo. La color correction digitale satura i colori oltre ogni limite per far risaltare i contrasti dell'azzurro e oro del deserto con il grigio degli interni dei bolidi, o per ricreare l'incredibile sequenza della tempesta di sabbia, vero e proprio trip allucinogeno in pieno deserto, una visione nella visione dal fascino incredibile.
Tutto il resto lo fanno gli stunt reali, veri ai limiti del tangibile nonostante la correzione in post; stunt dove l'automobile è di nuovo, prepotentemente al centro dell'inquadratura ed il montaggio non ne martoria la coreografia, ma anzi ne esalta la velocità
Veloce, furioso, folle, "Fury Road" è uno schiaffo in piena faccia al bulimico eppure piatto action moderno; un'esperienza sensoriale spiazzante, forse anche sfiancante vista la durata ai limiti dell'eccessivo, eppure strabiliante; la zampata di un leone che con 36 anni di onorata carriera alle spalle, assente dal genere da 30, può dirsi ancora giovane, capace e sorprendente.
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