di Abel Ferrara.
con: Abel Ferrara, Carolyn Marz, Baybi Day, Harry Schultz, Alan Wynroth.
Usa (1979)
Abel Ferrara non è sicuramente un nome noto presso il grande pubblico; non può vantare la fama di altri grandi registi italoamericani newyorkesi del calibro di Francis Ford Coppola o Martin Scorsese, tantomeno lo status di regista di culto vero e proprio, vista la complessità di molte sue opere.
Tuttavia, è proprio Ferrara a rappresentare l'ideale continuazione del cinema della New Wave americana che ha visto come protagonisti gli autori piuttosto che le star o le case di produzione; quell'idea di cinema come opera strettamente autoriale, volta a convogliare idee del tutto proprie o declinare in modo originale generi e stilemi che era già radicata ad Hollywood quando Ferrara muoveva i suoi primi passi nel cinema. Idea che non lo ha mai abbandonato ed anzi è cresciuta sempre più voracemente nel suo modo di fare di cinema.
Tanto che a differenza degli altri grandi autori americani, Ferrara non si è mai davvero avvicinato alle grandi produzioni, ai grandi budget e grandi set; si è anzi sempre mosso nel sottobosco del cinema indipendente, imponendosi come il perfetto cantore di un modo di fare cinema piccolo solo nei numeri, la cui estrema libertà da restrizioni gli ha sempre permesso di creare opere vive, tra le quali spiccano alcuni immensi capolavori malauguratamente poco conosciuti.
Nato nel Bronx, Ferrara cresce in una famiglia di immigrati di seconda generazione fortemente orgogliosa delle sue origini italiane, dalla quale eredita la fascinazione per il concetto di "radici" che esplorerà in parte della sua filmografia; sopratutto, eredita i crismi della religione cattolica, che saranno al centro di buona parte della sua produzione, anche grazie alla collaborazione con Nicholas St.John, all'anagrafe Nicodemo Oliviero, anch'egli figlio di immigrati ed ex seminarista che scriverà di suo pugno alcuni dei lavori più interessanti di Ferrara.
Potrebbe quindi stupire il fatto che due personaggi del genere, nati e cresciuti in ambienti conservatori, esordiscano nel cinema exploitation, in particolare nel porno, con il mitico "9 Lives of a Wet Pussy" (1976), facilmente interpretabile come un atto di rifiuto verso tutto ciò che li ha forgiati.
In realtà il quadro dell'epoca era più complesso; la situazione produttiva della New York della fine degli anni '70 era basata quasi unicamente su pellicole di basso rango e largo consumo, tra i quali la pornografia altro non era se non un "genere" non diverso dagli altri; ben potevano, quindi, cineasti in erba prestarsi, sotto falso nome, a produzioni del genere per ottenere fondi e credito per lavori più personali.
Ferrara e St.John colgono la palla al balzo e usano i proventi, economici e non, del loro esordio per confezionare successivamente un piccolo film, ascrivibile anch'esso all'explitation più pura visto l'alto tasso di violenza grafica; una pellicola di genere nel quale i due immettono una seria riflessione riuscita sulle nevrosi urbane: "The Driller Killer"
Il termine di paragone ideale, ma al contempo fuorviante, per il lavoro di Ferrara è "Taxi Driver" (1976); in entrambi un cineasta newyorkese racconta una lenta discesa nello follia di un personaggio borderline e per entrambi la New York notturna è un vero e proprio girone dantesco percorso da anime in pena; e l'influenza del capolavoro di Scorsese si disvela quando Ferrara arriva a citarlo esplicitamente nella scena in cui Reno, da lui stesso interpretato, minaccia un suo dipinto con un coltello chiedendogli "se sta parlando con lui".
In realtà Ferrara si distacca dal modello di riferimento per due motivi essenziali della sua visione; l'odissea di Travis Bickle veniva osservata da Scorsese con un certo distacco ed una forte lucidità, mediante uno stile visivo fortemente debitore dei canoni della Nouvelle Vague francese, per quanto reinterpretati in modo personale; quello di Scorsese, inoltre, è uno sguardo laico, totalmente scevro da considerazioni metafisiche o filosofiche, fortemente calato invece nel contesto socio-politico dell'America degli anni '70.
Ferrara, all'opposto, apre "The Driller Killer" con una scena che, idealmente, descrive quello che sarà il suo stile per tutta la sua filmografia; Reno entra in una chiesa, cammina in silenzio lungo la navata, avvolto in una luce irreale, immerso in un'atmosfera cupa ed onirica; un uomo che prega per i peccati che ha commesso lo ha chiamato, ma lui corre via mentre è visibile una scritta che recita "coloro che pregano lo fanno sempre per qualcosa"; il tono è definito: Ferrara riprende il punto di vista del suo personaggio totalmente, dà vita alla sua angoscia ed al suo tormento in prima persona.
La città di "The Driller Killer" è un coacervo di violenza e follia e il suo protagonista ne è la vittima e l'incarnazione. Reno si allontana nella prima scena da Dio e dalla carità, si rifugia in sé stesso, in un mondo fatto di sesso ed arte, ma privo di vera ispirazione o di bellezza. Un mondo grigio, popolato da punks sfatti, infestato da rumori insostenibili che ne spappolano il cervello e percorso da una vena di violenza che si fa strada nella sua psiche per sedimentarsi a poco a poco; una violenza gratuita. sia essa esercitata su animali che su persone lasciate morire in strada sotto gli occhi di tutti.
E la violenza è l'unica risposta di Reno al male che lo affligge, alla paranoia senza volta e al malessere quotidiano; una violenza carnale, brutale, che ha la forma del trapano, un oggetto quotidiano trasformato in arma mortale; una violenza del tutto autoreferenziale, non votata al castigo, ma allo sfogo: le sue vittime sono innocenti, barboni, sia gli ultimi tra gli ultimi; una violenza gratuita, priva di catarsi alcuna persino nel climax.
La descrizione di Reno e della follia metropolitana vengono portati in scena in modo vivido ed efficace, con uno stile lercio, sporco e cupo, fatto di camera a mano e pellicola 16mm. Meno riuscito è lo script di St.John, troppo acerbo nella descrizione dei personaggi secondari e nell'intrecciare le sottotrame.
L'intuizione dei due autori è però vincente: creare un film d'autore per il tramite dell'exploitation più pura, con violenza grafica esplicita, visioni viscerali degne di Dario Argento e sequenze softcore d'antan che non rubano mai la scena alla descrizione della psicosi del protagonista. Un "esordio effettivo", quello dei due autori, che ha in nuce già tutti gli elementi che ne faranno la fortuna, anche se non ancora pienamente maturi.
EXTRA
Censurato e bandito un pò in tutta Europa a causa delle sequenze di violenza esplicita, "The Driller Killer" ebbe una sorte del tutto particolare nell'Inghilterra puritana dei primi anni '80.
Distribuito in VHS con una copertina a dir poco di cattivo gusto, il film di Ferrara, assieme a "La Casa" (1981) di Raimi e agli horror di Lucio Fulci, scioccò i benpensanti al punto che il Department of Public Prosecutions dovette intervenire con un provvedimento ad hoc; nel 1984 fu emanato il famoso "Obscene Publications Act". legge che proibiva o limitava la distribuzione di opere dal contenuto violento o pornografico, rimasta in vigore sino al 2001.
La legge portò alla redazionee di una lista di 39 film la cui pubblicazione era perseguibile penalmente; i 39 titoli presero il nome di "video nasties", ossia "video osceni", e cominciarono a circolare in via illecita su tutto il territorio inglese a causa della reputazione fattasi, che li permise di assurgere allo status di cult a prescindere dal loro contenuto.
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