Youth
di Paolo Sorrentino.
con: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda, Mark Kozelek, Robert Seethaler.
Drammatico
Italia, Inghilterra, Francia, Svizzera (2015)
"Youth" segna in un certo senso un punto d'approdo prevedibile per la carriera di Sorrentino, l'epilogo intravisto e mai sperato del suo modo di intendere la narrazione filmica: il trionfo della mera forma sul racconto.
L'attenzione estrema per la composizione dell'inquadratura, l'uso espressivo ed estetico delle luci e la creazione di sequenze oniriche e poetiche, i marchi di fabbrica del suo cinema che ne hanno giustamente sancito il successo e la riuscita, qui divengono compiaciuta masturbazione; le immagini non raccontano nulla, la loro estrema e sfavillante ricercatezza formale non è al servizio di niente se non del compiacimento estremo del loro creatore; il che, unito ad una narrazione essenziale e a tratti contraddittoria, porta alla creazione dell'esito peggiore del suo cinema.
Già ne "La Grande Bellezza" (2013), una forma di ispirazione verso il cinema di Fellini era ravvisabile; ma con "Youth" Sorrentino va oltre e riprende in pieno l'ambientazione termale e parte della caratterizzazione del protagonista da "8 e 1/2" (1963); Fred Ballinger altro non è se non una versione invecchiata del Guido Anselmi di Mastroianni, un uomo che si è lasciato alle spalle i momenti migliori della sua vita per sguazzare in uno stato di apatia perenne; un artista che rifugge la sua stessa arte per rifugiarsi nella frivolezza, nei piaceri semplici e nella quotidianità più bassa, come i discorsi sulle minzioni mattutine; un "vecchio" nel senso pieno del termine, la cui vitalità viene mostrata solo nei sogni; la performance trattenuta di Caine ben aiuta a dar vita al personaggio, ma non si capisce perchè debba assomigliare tanto a Gep Gambardella pur non avendone le caratteristiche emotive, tantomeno il volto di Toni Servillo; tant'è che è facile credere che la scelta dell'interprete sia dovuta a mere ragioni commerciali, per dare un tono "internazionale" all'operazione.
Il ruolo dell'autore vecchio ma ancora caparbio viene invece relegato alla sua ideale nemesi, il Mick Boyle di un redivivo Harvey Keitel, regista ottantenne ma ancora carico di voglia di esprimere la sua poetica, che insegue forsennatamente l'arte per poter cercare di creare un lasciato definitivo, un testamento in grado di sottolineare tutta la sua creazione precedente.
L'impostazione dei caratteri dei due protagonisti, per quanto derivativa, è efficace nel descrivere lo stato senile di chi dalla vita ha avuto tutto; due autori dalle esperienze complementari, ma non del tutto opposte, due amici e complici che si ritrovano non tanto a fare il punto di quanto prodotto, ma a convivere con i postumi delle loro creazioni: Bellinger ossessionato dal riconoscimento avuto solo per la sua opera meno ambiziosa, le "canzoni semplici" che tutto il populino, falsi intellettuali compresi, apprezzano ossessivamente, Boyle alle prese con la difficoltà di creare una summa del suo cinema, in particolare il finale perfetto della sua opera, che gli sfugge continuamente.
Altrettanto riuscito è lo sguardo verso il giovane artista Jimmy Tree, che Sorrentino e Paul Dano modellano idealmente su Johnny Depp e con il quale creano un affondo all'ossessione del pubblico moderno per la frivolezza del cinema mainstream; il "genocidio culturale" già perfettamente ritratto da Inarritu nello splendido "Birdman" (2014) ritorna nella forma di un attore schiacciato dal suo peggiore personaggio, che ritrova sé stesso grazie all'apprezzamento per la sua vera arte.
Decisamente meno riuscita è la caratterizzazione di tutti i personaggi secondari; è come se Sorrentino non riuscisse a creare caratteri che non siano iperbolici e stereotipati; i freaks che hanno fatto la fortuna del suo cinema oramai divorano ogni buon senso e buon gusto per imporsi come caricature poco credibili e ridicole; è il caso di Lena, la figlia di Bellinger, vero e proprio stereotipo della figlia alla ricerca di una figura paterna in ogni uomo, sia esso il figlio del migliore amico del padre che l'aitante istruttore di alpinismo; Lena è il perfetto stereotipo della donna fragile e petulante, in grado solo di lamentarsi e rinfacciare le mancanze delle figure maschili che la circondano.
Ancora peggio, i personaggi di contorno sono tutti rigorosamente basati sull'effetto scenico piuttosto che su una loro possibile funzione narrativa; non si capisce davvero a cosa serva la coppia di "muti" che Bellinger e Boyle si divertono a spiare, se non a creare sequenze ironiche; il marito di Lena è semplicemente un idiota, non una parodia di un uomo infantile, quanto una barzelletta utile solo a dare alla stessa una forma di rilevanza ulteriore rispetto a quella di semplice controparte del padre. Gli sceneggiatori di cui Boyle si attornia nel suo brainstorming perenne sono il peggior esempio di sarabanda di luoghi comuni mai apparsi in una pellicola d'autore: il gay insicuro, lo sfacciato, il radical chic, l'intellettualoide e la ragazza petulante, ossia tutti i "tipi" di mestieranti e pseudo-autori che si possano immaginare. E l'omaggio a Maradona, ridotto ad un pachiderma silenzioso chiuso nella gloria del passato, per quanto simpatico è fuori tempo massimo, semplice strizzatina d'occhio di un napoletano ad un mito del calcio partenopeo.
Sopratutto, Sorrentino non riesce a comunicare gli stati d'animo e i pensieri se non tramite dialoghi didascalici e verbosi; l'introduzione di Bellinger, il dialogo con l'emissario della regina, è probabilmente uno dei peggiori escamotage per dar vita ad un personaggio che si possano immagine, dove tutte le informazioni sul protagonista vengono sbattute in faccia allo spettatore per il gusto di togliersele davanti, privandosi così della possibilità di dare un significato alle immagini del quale sarà protagonista. I battibecchi con Boyle sono stanchi e le posizioni anti-intellettuali sono pretenziose e talvolta genuinamente false, foriere di una volontà iconoclasta fine a sé stessa sopratutto perchè priva di ogni contesto culturale di riferimento. L'unica sessione dialogica interessante è il confronto tra Keitel e la Fonda, vero e proprio combattimento tra due personaggi antitetici: un confronto serrato, volgare e acido, nel quale Sorrentino si diverte a distruggere i due personaggi per evidenziarne le mancanze.
E le immagini scorrono inesorabili ed inerti, visioni totalmente fini a sé stesse, ricercatissime nell'estetica e totalmente vuote nel significato. Sorrentino stavolta non si risparmia: esterni della campagna svizzera che non sfigurerebbero in una brochure turistica, mangiatori di fuoco che si riflettono sui vetri, massaggiatrici che giocano a danzare al ralenty, nudi gratuiti immersi in illuminazioni soffuse; la fotografia di Bigazzi con i suoi giochi di luce e colore viene gettata in faccia allo spettatore solo per dimostrarne il mestiere; la composizione delle inquadrature, persino nelle sequenze dialogiche, è talmente inutilmente barocca che sembra gridare "guardatemi!" in ogni fotogramma; i movimenti di macchina ricercatissimi sono tronfi; il principio dell'estetica per l'estetica viene abbracciato totalmente, tanto che sembra che al posto di Sorrentino in cabina di ragia ci sia un suo imitatore intento a creare una parodia.
Nemmeno la pura contraddittorietà viene risparmiata; il personaggio di Miss Universo, ossessione erotica presente sin dalle primissime scene, viene introdotto in modo intelligente, con uno scambio di battute con Jimmy Tree che ne distrugge lo stereotipo di "bella scema"; ma poi Sorrentino ci ripensa, regala il nudo integrale della carriera a Madalina Ghenea, che le ha permesso di conquistare le prime pagine di tutte le riviste di gossip, e ne disvela in toto la bellezza: una bellezza di plastica, con le labbra gonfiate e i seni rifatti; una bellezza che, nell'ambito del racconto, vorrebbe rappresentare quasi una forma salvifica per i due protagonisti, ma che a causa della sua falsità contraddice sé stessa, proprio come avveniva con la Ferilli ne "La Grande Bellezza".
Tra compiacimento urlato in faccia e narrazione claudicante, verrebbe voglia di far propri i dialoghi del film e chiedere a Sorrentino se tutt'oggi è felice; perchè, stando a quanto lascia dire i suoi personaggi, sono la felicità porta all'arte; e lui, tra acidità gratuita, piattezza narrativa e estetismo da videoclip, oramai non sembra più in grado di concepire una vera forma d'arte.
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