sabato 2 maggio 2015

La Maschera del Demonio

  di Mario Bava.

con: Barbara Steele, John Richardson, Andrea Checchi, Ivo Garrani, Arturo Dominici, Enrico Olivieri.

Horror/Gotico

Italia (1960)
















Di quella enorme fucina di idee che fu in il cinema italiano degli anni '60 e '70, molti sono i meriti riconosciuti; l'aver riplasmato il genere americano per antonomasia con lo "spaghetti western" o innovato i canoni del thriller con i "giallo movies"; finanche di aver fuso la dimensione della fiction con quella del documentario con i "mondo movies".Ma stranamente, sono stati in pochi ad aver accreditato a Mario Bava e ai mestieranti nostrani dell'epoca la codificazione del filone gotico.
Il che non deve stupire; da un lato il lavoro di Bava è stato sottovalutato dalla critica per decenni e riscoperto solo ed esclusivamente a seguito dell'apprezzamento di maestri americani come Tim Burton o Quentin Tarantino. Dall'altro non va dimenticato il fatto di come esistesse già all'epoca dell'archetipico "La Maschera del Demonio" un filone gotico britannico, quello della Hammer, la quale aveva inaugurato la seconda giovinezza dell'horror in costume già nel 1958 con "Dracula il Vampiro" e "La Maledizione di Frankenstein".
Ma seppure si potrebbe far risalire la paternità effettiva del gotico moderno sempre a Bava grazie al lavoro svolto in "I Vampri" (1957), uscito un anno prima dei lavori della Hammer, in realtà è proprio con il suo esordio totale da regista che il grande autore reinventa l'horror classico per imporre una nuova formula che poi la casa di produzione britannica farà propria; una formula "ibrida", una via di mezzo tra tradizione e innovazione che all'epoca sconvolse il mondo.


Formula che si rifà alla tradizione per l'impostazione della storia, classica fin nel midollo; una storia che trae spunto dalla tradizione popolare e dalle atmosfere di Poe, con una strega che torna in vita duecento anni dopo il suo linciaggio per vendicarsi, un gruppo di uomini razionali chiamati ad affrontare l'orrore ed una giovane principessa in pericolo di vita. Formula che svecchia la tradizione introducendo nell'horror in costume una violenza grafica inusitata per l'epoca ed una sensualità carnale palpabile in ogni scena in cui compare la protagonista, la bellissima Barbara Steele.
Mai su schermo era apparsa una tortura come quella della maschera creata da Bava; ispirata alla alla "vergine di ferro" tanto cara all'Inquisizione, la maschera è un pugno allo stomaco, un oggetto di tortura che penetra il volto della vittima così come il film si insinua nel nervo ottico dello spettatore per distruggerne ogni aspettativa sino a ricreare una sensazione di orrore puro e tangibile, non più semplicemente evocato dall'atmosfera sinistra.
La tradizione della Universal riprende nuova linfa vitale: il sangue, quel sangue che la censura dei primi anni '60 permetteva di mostrare e che qui scorre copioso dai buchi dei chiodi. E Bava anche qui va oltre per creare un immaginario gotico fatto di cadaveri putrescenti, orbite vuote infestate da insetti e non-morti vendicativi ed inarrestabili.
In pratica, sulla tradizionale storia dell'orrore atavico che torna a perseguitare i discendenti dei carnefici, Bava innesta un nuovo tipo di orrore, un orrore visivo ai limiti del viscerale, grafico e pulsante.


La carica sensuale di Barbara Steele gli permette poi di reinventare la figura della strega, che da vecchia megera diviene giovane e provocante sposa del male; la strega perde ogni connotato esteticamente orrorifico per caricarsi di una bellezza carnale e selvaggio; il terrore della figura comincia così a derivare dal misto di attrazione e repulsione che emana, incarnato dal volto della Steele sfregiato dai chiodi della maschera: una creatura bella distrutta dal male, affascinante e temibile.


Il terrore deriva non tanto dallo shock della graficità degli effetti e non solo dal mix di eros e thanatos della Steele, quanto dalla magistrale atmosfera che Bava crea. Riunendo i personaggi in un'unità temporale precisa ed in un pugno di luoghi, riesce a ricostruire in studio quasi tutte le location per ammantarle in una fotografia lugubre, dalle ombre preminenti, incorniciata in inquadrature ricercattime sia nella composizione che nei componenti di macchina. Ogni singolo fotogramma riesce a trasmettere l'inquietudine dei luoghi e l'atmosfera maligna che li appesta, anche grazie ad un'uso dell'effetto nebbia mai invasivo, volto a sottolineare l'entrata in scena dei "mostri".


Un esordio col botto, quello di Bava. Un piccolo film che ha fatto scuola e che grazie alla sua eleganza e alla cura resiste bene alla prova del tempo; una "pietra miliare" da riscoprire ed ammirare per comprendere per l'ennesima volta come il talento non venga inificiato da budget irrisori.

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