con: Jonathan Genet, Johan Leibérau, Victroia Guerra, Sabine Azéma, Jean-François Balmer, Clémentine Pons, Andy Gillet, Ricardo Pereira, Antònio Simão.
Francia, Portogallo 2015
Terminato il sodalizio sentimentale e professionale con la moglie e musa Sophie Marceu con "La FIdélité", Zulawski si ritira in parte dalle scene. Devono infatti passare ben 15 anni prima che "Cosmos" arrivi al Festival di Locarno e questi finisce per configurarsi, purtroppo, come la sua ultima opera, un testamento artistico che non raggiunge gli apici del passato, ma incorpora alla perfezione tutti gli stilemi e le ossessioni del grande cineasta polacco, restandone comunque un'ottima testimonianza.
"Cosmos" è un titolo fuorviante, poiché Zulawski incapsula in meno di due ore una perfetta forma del caos. Ma è al contempo un film dove forma e sostanza si inseguono, dove i piani narrativi si fondono e realtà e finzione si confondono, come nel bel finale, nel quale non è dato sapere quale sia la risoluzione effettiva degli eventi; dunque il tranello del titolo è del tutto giustificato. E tutta questa operazione di messa in scena dell'assurdo, nell'assurdo, con l'assurdo e per l'assurdo diviene chiara nel momento in cui si riconosce il nome di Witold Gombrowicz, autore del libro alla base della sceneggiatura, che nelle stesse parole di Zulawski non sapeva come finire le sue storie, tantomeno quale significato avessero.
Lo spunto iniziale è l'unica traccia narrativa comprensibile: i giovani Witold (Jonathan Genet) e Fuchs (Johan Leibérau) fuggono dalla città e dalla misera vita di studenti per rifugiarsi in un bed & breakfast di paese. Qui vengono ospitati da una strana famiglia e Witold si innamora da subito della conturbante figlia Lena (Victoria Guerra), sposata e aspirante attrice.
Un testo che diventa pretesto nel quale far confluire ricordi cinefili, ossessioni antiche, pulsioni moderne, un caleidoscopio di spunti, intuizioni e rimandi che confondono. E' impossibile seguire "Cosmos" poiché è esso stesso la sostanzia propria del cinema di Zulawski, ossia quel delirio febbrile che possiede corpo, anima e mente in modo talmente forte da portare alle convulsioni e al delirio.
Decisamente più facile è orientarsi grazie ai rimandi e alle citazioni. La più esplicita, anche perché richiamata a più riprese dagli stessi personaggi, è quella pasoliniana, di quel "Teorema" che diventa testo sacro. Già dall'incipit è facile vedere nella storia di Gombrowicz un'inversione della premessa del capolavoro di Pasolini, con i due ragazzi che fanno irruzione in una casa della piccola borghesia, dove, anzichè sovvertirne le certezze, finiscono trascinati in un caos che ne ha già fagocitato gli ospiti.
Gli ulteriori riferimenti cinefili sono poi a dir poco ameni, spaziando da Luis Buñel a "Star Wars", ma solo talvolta hanno una forma effettiva, come nel caso degli insetti che fuoriescono dal corpo di uno dei personaggi.
Il testo si fa così indecifrabile, perso nei meandri della contemplazione febbrile del sentimento. Mai come ora Zulawski è riuscito a dare corpo alla totale perdita di raziocinio, all'abbandono di ogni unama logica in favore di una pazzia emotiva che cannibalizza ogni possibile razionalizzazione, anche il più semplice percorso a-logico.
Eppure tale perfezione è anche fatalmente manierista: arrivando alla fine del suo percorso artistico, di fatto aggiunge davvero poco ai suoi deliri più celebri; tanto che gli apici toccati (già un trentennio prima e solo per citarne un paio) da "Femme Publique" e "L'Amour Braque" restano decisamente più memorabili. Complice anche un cast che qui sa decisamente come dare corpo e volto ai personaggi, ma che non ha la forza o la presenza scenica di altri collaboratori del grande regista: Victoria Guerra, pur affascinante, è un'ombra della Marceu, ma anche di Isabelle Adjani, Romy Schneider e Valérie Kaprisky, mentre Jonathan Genet, pur dal volto cadaverico da perfetto deviato, non ha il carisma di un Sam Neill o la presenza scenica di Bouguslaw Linda, Lambert Wilson o Jacques Dutronc.
"Cosmos", semmai, è un'opera più compatta e coerente per la precisione nella quale dà corpo ai desideri smaniosi dei personaggi perdendovisi all'interno, senza mai lasciare che il discente possa capire quanto ciò che accade è vero e quanto è una manifestazione dell'interiorità.
I rimandi letterari non sono, tuttavia, pura erudizione, ma anch'essi esternazione del caos interiore del protagonista. La citazione di Dante che apre il film sancisce la discesa agli inferi interiori, gli insetti, ovviamente, il marcio che striscia oltre il visibile, i cadaveri degli animali appesi quel male che sembra ammantare il posto. Tutto ha bene o male senso, almeno nell'immediato, mai nel lungo termine, e da un certo punto di vista va anche bene così.
Pur tuttavia, non ci si può che dispiacere del fatto che la carriera di Zulawski finisca in modo così ordinario. Certo, vedere delle immagini così dinamiche ed un ritmo elevato in un film europeo contemporaneo è certamente spiazzante; ma la sua filmografia aveva già raggiunto l'apice e questa sua ultima e definitiva fatica, purtroppo, non aggiunge nulla.
Meglio ricordarlo, dunque, per i suoi film più belli, riscoprirne quelle opere che ancora oggi risultano originali e sconvolgenti.
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