lunedì 28 settembre 2015

The Green Inferno

 di Eli Roth

con: Lorenza Izzo, Ariel Levy, Aaron Burns, Mgda Apanowicz, Kirby Bliss Blanton, Ignacia Allamand.

Usa, Cile- 2013


















Eli Roth è uno che ci crede davvero. E' davvero, fortemente, convinto che sia possibile riproporre i fasti del cinema splatter italiano anche in un contesto moderno e a prescindere dal clima politico, sociale e produttivo che portò alla nascita e fioritura del filone. E di fatto, fin dai suoi esordi ha tentato di rifarsi sempre e comunque a stili, stilemi e correnti esistenti, anche oltre quelli nostrani, rileggendoli in chiave furba, cinefila e compiaciuta, non tanto per creare qualcosa di nuovo o sperimentare nuove forme estetico-narative, quanto per sfoggiare la sua voglia di omaggiare i classici. Omaggio che però non si sostanzia nella ripresa cosciente di singoli elementi, quanto nella riproposizione coatta di clichè, intrisi di tanta, troppa voglia di stupire e spiazzare. Con risultati risibili.
Non è un mistero il fatto che il suo esordio "Cabin Fever" (2002) fosse nato come semplice variazione sul tema slasher, nel quale al fattore shock o alla semplice onestà di intrattenitore si sostituiva una carica autoriale beffarda che distruggeva ogni forma di immersione per lo spettatore; al punto che il produttore David Lynch, schifato dal risultato, decise di disconoscerlo.
Ma il successo di quel filmino da quattro soldi aprì a Roth le porte dell'Olimpo, che per lui aveva il nome di Quentin Tarantino, ossia il Re Mida dei registi cinefili. Peccato che Roth non avesse un'oncia del talento distruttivo e sperimentale del suo mentore e la loro prima collaborazione, il famigerato "Hostel" (2004), si sia rivelata come la pellicola più ruffiana e compiaciuta che il revival splatter abbia conosciuto.
Nove anni dopo, dopo un sequel della sua creatura più fortunata e varie comparsate per l'amico Quentin, Roth, imperterrito, torna alla carica prendendo di mira questa volta il filone cannibale, unendo i primi due capitoli della trilogia di Ruggero Deodato, "Ultimo Mondo Cannibale" (1977) e "Cannibal Holocaust" (1980), purgandoli da qualsiasi risvolto polemico, riducendo la violenza a mero shock viscerale per creare un film ipocrita e sottilmente razzista. Che dopo un limbo distributivo durato due anni, arriva in Italia in anteprima mondiale, in una mossa di merketing dal sapore cinefilo posticcio.




A differenza di "Hostel", qui Roth dimostra una maggiore serietà nel portare in scena la violenza. "Serietà" non intesa nel senso stilistico, che anzi manca, quanto come onestà verso lo spettatore: al bando ogni forma di rimando o ritardo, il gore fa capolino puntuale da metà film in poi, nella forma dei disgustosi e magnifici effetti di Nicotero e Berger, che trasformano i pallidi personaggi in portate di un banchetto davvero sadico, dove la violenza urlata in faccia riesce finalmente ad essere disturbante, per quanto compiaciuta.
Ma al di là di questa ritrovata, quanto parziale, forma di rispetto verso il pubblico pagante, non ci sono altri meriti effettivi in questo "The Green Inferno", primo fra tutti il rispetto verso le pellicole a cui si ispira.
La trilogia di Deodato ben si presta, tutt'oggi, alle critiche sulla gratuità della violenza, sia vera che finta, ma riusciva indubbiamente a generare nella mente di chi la guardava una riflessione potente sul concetto stesso di violenza, oltre che sul razzismo insito nell'uomo bianco.
A Roth tutto questo, ovviamente, non interessa. Per lui i personaggi sono solo degli idioti, non dei carnefici, buoni solo per essere derisi e sbudellati. Per tutta la prima metà, si diverte a perculare la moda ecologista degli universitari e l'ossessione per la ripresa digitale e lo streaming degli eventi come forma di coscienza virale. La protagonista Justine (Lorenza Izzo) altro non è che la perfetta "maschera bianca" che subisce il lavaggio del cervello del carismatico Alejandro (Ariel Levy) per partecipare alla protesta in Perù. L'impegno sociale e politico giovanile viene deriso e descritto come pura moda, gli attivisti come radical chic afflitti dai sensi di colpa borghesi. Il riferimento più ovvio è ai gruppi Anonymus e per gli Italiani non sarebbe sbagliato rivedere il modus operandi del Moviemnto 5 Stelle di Grillo. Ma quanto c'è di sensato in questa critica?
Poco o nulla. Roth fa sicuramente bene a demolire il mito dell'impegno coatto, ma nel momento in cui generalizza la sua posizione, caratterizzando tutti i personaggi come un gruppo di imbecilli ed il loro capo come un idiota, deviato e corrotto, cade nella sua stessa trappola, disvelando un punto di vista troppo parziale e sbruffonesco. Il suo status di "benestante ebreo bianco", che in teoria lo dovrebbe rendere uguale ai suoi personaggi, tradisce invece una supercialità fastidiosa: vien da chiedersi se Roth abbia mai davvero partecipato ad una riunione di un qualsiasi gruppo di attivisti, se ne abbia conosciuto davvero o qualcuno o anche solo letto i loro proclami. Molto più probabilmente, si è limitato solo a guardare qualche viedo (magari in streaming) e deciso di etichettare tutto come "idiozia".



Perchè i due personaggi principali, Justine ed Alejandro, sono davvero troppo caricaturali per essere credibili o assurgere a "spauracchio". La prima è una ragazza, si, benestante, ma scopre una forma vivida di interesse verso il "male" del mondo. Ma allora perchè una volta rincasata decide di prendere le difese dei suoi aguzzini in modo beffardo ed ostinato? Perchè a Roth non interessa la coerenza narrativa, ma solo l'insulto spregiudicato verso una categoria di persona che pretende di conoscere e saper analizzare. Allo stesso modo Alejandro dovrebbe essere una sferzata contro i carismastici radical chic che inscenano forme di protesta per scrollarsi di dosso i sensi di colpa. Ma nel momento in cui si rivela non solo colluso con le aziende che combatte, ma anche sadico e beffardo sino alla devianza, il discorso finto-moralista perde di ogni credibilità. Così come la credibilità di tutta l'operazione.
La critica alla tanto demonizzata moda della videoipresa con smartphone, che qui vorrebbe sostituire il vouyersimo di "Cannibal Holocaust" senza riuscirci, fa poi scadere il tutto nel ridicolo involontario quando ci si accorge non solo che l'intero film è girato in digitale, ma che sui titoli di coda spuntano gli account Twitter di regista e cast, in un controsenso spiazzante.
Cosa vuole davvero dire Roth? Che l'ossessione della ripresa digitale è stupida o innocua? Che la moda della condivisione di ogni singolo evento di vita è vergognosa o "figa"? Quesiti dall'ardua risposta, visto il cortocircuito cerebrale che ammanta l'autore e la sua visione.



Visione che, in generale, vorrebbe rifarsi al cinema anni '70 senza mai riuscirci davvero. Roth non è Tarantino, ma neanche Rob Zombie: non ha il gusto per la citazione o il polso fermo nella messa in scena. La fotografia blanda e l'uso di inquadrature brutte e sghembe più che richiamare alla mente il cinema di Deodato fa ripensare agli obbrobri di Umberto Lenzi ed il suo "Cannibal Ferox" (1981) o l'apripista di tutto il filone "Il Paese del Sesso Selvaggio" (1972); e non è un merito: la sgrammaticatura non diviene cifra estetica, ma solo dolore per chi guarda.
E gli intenti di Roth si sfaldano totalmente nella "costruzione" dei personaggi: tutti si rifanno agli stereotipi dello slasher americano. Al bando i cinematografari sadici di Deodato, Justine e soci sono del tutto assimilabili ad ogni singolo luogo comune visto in decenni di squartamenti a stelle e strisce; la protagonista è la classica "final girl", dalla bellezza un pò ingenua che cela la canonica incredibile forza d'animo; il fattone del gruppo fa la fine peggiore; il nero, questa volta anche sovrappeso per fondere insieme due stereotipi, è il primo a tirare le cuoia; la ragazza più carina ha un crollo psicologico, quella forte viene massacrata e, in omaggio ai tempi che cambiano, le due sono lesbiche, o, per meglio dire, sono impegnate in una relazione lesbica, visto che esteticamente ricordano la classica reginetta e la punk rocker.
Lo scivolone maggiore però lo si ha quando entrano in scena i cannibali, ridotti a puri mostri. Non più i "buoni selvaggi" inselvatichiti dal contatto con la cattiveria dell'uomo civile, gli Indios sono qui delle creature inutilmente feroci e sadiche. Il discorso di Roth vorrebbe rifarsi a quello di "Cannibal Holocaust", inscenando nel velocissimo prologo una giustificazione dovuta al disboscamento, ma nel momento in cui non fa discernere ai sui cannibali la differenza tra buoni e cattivi, scivola automaticamente nel razzismo più becero. Perchè, davvero, è impossibile non vedere una contrapposizione tra il civilizzato nordamerica e il selvaggio sud, infestato da uomini d'affari che si circondano di guerriglieri dal grilletto facile e cacciatori di teste. Discorso che Roth già intavolava con "Hostel": in sostanza, la civiltà appartiene solo agli yankee, al di là dei confini ci sono solo assassini psicopatici. Il che rende il suo status di "ebreo bianco benestante" ancora più velleitario ed ipocrita.



La violenza, si diceva, questa volta fa capolino puntuale. Ma l'uso di un registro grottesco non giova; oltre a non essere Tarantino, né Rob Zombie, Roth non è neanche Adam Wingard e non sa coniugare umorismo nero e splatter senza distruggere la sospensione dell'incredulità. Davvero ridocola la trovata di far "sballare" gli Indios con un pacchetto di marjuana nascosto in un cadavere o, peggio, quella di far defecare rumorosamente la bella del gruppo in preda al panico. La violenza tinta di umorismo idiota funziona meglio quando resta confinata a singoli inserti, come nella scena del post-atterraggio, ma in generale fa scadere il tutto ad una pantomima come al solito compiaciutissima.



Tanto che alla fine si comprende appieno come Roth non abbia nessuna capacità autoriale. Non riesce a rendere un omaggio sincero ai film che ama, non è in grado di rinverdirne i fasti, nè a creare una riflessione riuscita sulle ossessioni moderne. Forse perchè, alla fin fine, anche lui non è che uno stupido borghese afflitto dai sensi di colpa. Non quelli derivanti dallo sfruttamento dei più deboli, ma quelli, più castranti, di essere un miracolato, un uomo che continua a trovare l'attenzione del pubblico solo perchè amico di Tarantino. Un amico privo di qualsiasi talento.

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