di Alex Garland.
con: Jessie Buckley, Rory Kinnear, Paapa Essidu, Gayle Rankin, Sarah Twomey, Zak Rothera-Oxley, Sonoya Mizuno.
Horror
Regno Unito 2022
---CONTIENE SPOILER---
Partiamo a un primo presupposto solo in apparenza scontato: il femminismo e la battaglia per i diritti, il rispetto e l'eguaglianza delle donne, anche al cinema, sono tematiche sacrosante. Sembra davvero scontato dirlo, ma in un periodo storico in cui ogni opera audiovisiva che porta vanti le istanze femministe si configura come qualcosa di incredibilmente fastidioso, saccente e odioso, si potrebbe pensare che le battaglie del femminismo siano inutili e dannose. Il che a torto, visto che l'affermazione dei diritti delle donne e il tema della violenza sulle stesse sono ancora oggi questioni drammaticamente non scontate anche nel moderno Occidente. Il che, purtroppo, si scontra con una rappresentazione della forza delle donne talvolta ridicola e gli esempi da fare in proposito sarebbero anche troppi, ma tutti categoricamente ridondanti. Ben venga, dunque, una pellicola che sia in grado di dare spazio e adeguato corpo alla tematica.
Non per nulla, l'errore più facile che capita di fare in questo tipo di prodotti è quello di caratterizzare in modo errato ed iperbolico i personaggi per creare una metafora che, proprio per questo, non funziona. E di fatto, sovente le donne vengono descritte come vittime perenni strozzate da maschi mostruosi e privi di qualsivoglia tratto positivo; o, peggio, come dei super-esseri alle prese con un modo in mano agli uomini, i quali sono tutti rigorosamente stupidi, inetti e deboli. Ed è anche inutile sottolineare come tutto questo sia lontano anni luce dalla realtà e che costituisca la metafora di un bel nulla, finendo solo per ammorbare lo spettatore e distruggere ogni tipo di messaggio possibile, oltre che di empatia verso quelli stessi personaggi.
Passiamo ora ad un secondo presupposto, anche questo solo in apparenza scontato: Alex Garland è il cineasta più sopravvalutato degli ultimi venti anni. Un tizio salito agli onori delle cronache come sceneggiatore di Danny Boyle, il quale a causa sua dirige quel "The Beach" che resta a tutt'oggi il suo peggior film, solo per poi divenire filmmaker in solitaria, esordire alla regia con quel "Non lasciarmi", fusione di tematiche da teen-drama e fantascienza pseudo impegnata che rasenta davvero l'arrogante piattezza dei libri di Suzanne Collins; che continua la sua carriera, giungendo al successo, con quel "Ex Machina" che vorrebbe essere profondo e profetico, ma finisce solo per configurarsi come un'accozzaglia impazzita di luoghi comuni male assortiti. E arriva infine a quel "Annientamento" che è praticamente la versione per scemi di "Stalker", né più, nè meno.
Abbiamo quindi una tematica difficile e spinosa (per quanto urgente) e un cineasta che ha dalla sua il mero mestiere e tanta boria. Il risultato è "Men", un film di genere, un "elevated horror" che vuole trattare la tematica della violenza sulle donne (psicologica prima ancora che fisica) e lo fa nel peggiore dei modi, ossia presentando una protagonista vittima totale persa in un mondo dove ogni singolo maschio è un mostro fatto e finito.
"Men" è un thriller psicologico dove violenza e visioni sono la metafora dell'elaborazione del lutto, della somatizzazione della violenza e del superamento di un senso di colpa mal riposto. Di fatto, sono due le metafore, con relative chiavi di lettura, che Garland propone: quella sociologica, con lo scontro tra sessi e l'affermazione di uno sull'altro, oltre che quella psicologica vera e propria, con l'accettazione del proprio ruolo di vittima. Ed entrambe sono grette e ottuse.
Il maschio esiste solo per perseguitare la donna. Gli uomini sono mostri, persino generati da un dio diverso (con la ripreso del mito celtico del Green Man e di Sheela na-Gig), venuti ad esistenza con il solo fine di sottomettere e perseguitare tutto ciò che è femminile. Per di più, il loro seme è elemento corruttivo che distrugge tutto ciò che tocca.
Oltre ciò, i maschi non hanno una personalità distinta, sono tutti l'incarnazione di un medesimo comportamento archetipico, sia mentale che fisico, da cui la trovata di far interpretare a Rory Kinnear praticamente tutti i personaggi maschili del film (ad eccezione del marito James, ma questo solo per puri fini metaforici e comunque con un'inversione nel finale). E tutti sono in qualche modo l'incarnazione di una figura che opprime la donna: il marito violento e dall'indole infantile, il poliziotto rappresentante di quel potere costituito che non ascolta il dolore femminile, il ragazzino che odia le donne in modo irrazionale, il prete, incarnazione del potere religioso, pronto a giustificare le mancanze dei compagni falloforniti e biasimare unicamente il gentil sesso, solo per poi feticizzarlo; e poi c'è il personaggio di Geoffrey, l'uomo di mezza età amichevole e pronto ad aiutare, il cui peccato originale è quello di essere... amichevole e pronto ad aiutare, oltre ad essere un uomo di campagna, ossia la peggior specie in assoluto.
L'altro punto di vista è quello personale, quello del personaggio di Harper, chiamata a confrontarsi con la perdita e prima ancora con la scoperta della tossicità della relazione intessuta e portata avanti con l'ex marito James, forse morto suicida, forse no. In merito ed in primis, Garland decide furbescamente di omettere le cause della fine del rapporto; se avesse fatto altrimenti, la costruzione della protagonista femminile come vittima assoluta avrebbe scricchiolato, in un modo o nell'altro, quindi meglio isolarsi da ogni confronto con la realtà e far finta che nella relazione tra i due la colpa della fine dell'idillio sia del tutto e categoricamente attribuibile all'uomo. E già qui il pregiudizio è evidente, ma vi si può soprassedere visto che l'intento del film è un altro.
Lo scopo è quello di dar forma al trauma, allo spettro di una violenza subita mai del tutto somatizzata, che prende così le forme di una mascolinità talmente tossica da divenire assassina. Di fatto, tutte le figure maschili sono rielaborazione del ruolo del marito e, di conseguenza, del maschio nella vita comune di una donna. Con la conseguenza ulteriore che il particolare è per forza di cose generale e Garland sottolinea quest'aspetto presentando la mascolinità come un peccato originale, come una forza della natura aliena rispetto alla femminilità che si rigenera in forme diverse solo perseguitare la donna nel corso della sua esistenza, con le fattezze del potere secolare e spirituale, del ragazzino/primo contatto con l'altro sesso, con i buzzurri/violentatori e infine con il marito, il generatore di sensi di colpa, violento ed irredento.
Metafora che in teoria potrebbe anche funzionare, ma che si scontra con un'esecuzione talmente corta di mente da risultare ridicola. Inutile sottolineare come non tutti i maschi siano misogini stupratori che trattano le donne come esseri inferiori, né come il paternalismo di un uomo più grande non è per forza esclusivamente rivolto ad "educare" una donna, ben potendo rivolgersi anche a figure maschili. Decisamente più disarmante e meritevole di disanima è invece la squallida caratterizzazione del personaggio di James, il marito infame, bastardo e violento, il maschio che picchia le donne e pretende di essere la vittima. Anche qui, un personaggio che sulla carta potrebbe funzionare, ma che viene affossato da una scrittura becera: un uomo che vuole suicidarsi solo per fare un torto all'ex compagna, un essere umano che picchia impunemente il partner affermando e che pretende attenzioni, un personaggio che definire cartoonesco sarebbe persino riduttivo e al quale viene negata ogni forma di profondità per creare un semplice apologo femminista, con la conseguenza di risultare poco credibile e, prima ancora, poco veritiero; e così facendo, anche l'apologo si disvela come fasullo.
Ma c'è una terza chiave di lettura possibile, la quale forse non era stata prevista da Garland e che risulta anch'essa risibile, anche se per motivi diversi. Harper è spaventata dai maschi, spaventata dal marito, il quale la perseguita anche della tomba, ed il suo arco caratteriale è quello di superare la schiavitù del fallo e ritrovare una forma di libertà. Schiavitù che ha quindi le forme della paura, la quale a sua volta si concretizza nelle figure maschili che la schiacciano, le tarpano le ali, la perseguitano e insultano. E se queste sono un'esternalizzazione di un malessere interno, quest'ultimo ben potrebbe essere definito (con un termine retrogrado ma perfettamente calzante) come "penefobia", visto e considerato che del suo rapporto effettivo con l'altro sesso prima del trauma nulla viene detto. E assistere ai deliri di una mente spaventata dal pene per motivi ignoti perché mai esplorati è a dir poco ridicolo.
Paradossalmente, ad affossare definitivamente "Men" non è neanche la scrittura tronfia e superficiale, quanto una messa in scena fatta di simbolismi pazzi e di scelte stilistiche anch'esse risibili.
Garland sceglie come ambientazione la remota campagna inglese per creare un ritorno alla natura, una riscoperta delle radici primordiali della donna come entità generatrice di vita e si rifà alla mitologia pagana in modo certamente gretto, ma lo stesso originale, solo per poi inserire rimandi alla Genesi, con l'Albero della Conoscenza in piena vista e la mela usata come simbolo di un peccato originale, in piena contraddizione e con l'espressa volontà di ammassare metafore per darsi un tono da intellettuale.
Usa il simbolo del tunnel per rappresentare l'utero, con un ritorno allo stesso che lo fa diventare rifugio sicuro, finché non viene "contaminato" dalla presenza del maschio malvagio, creando involontariamente un inno alla verginità come virtù necessaria, neanche si fosse nel Medioevo e mandando a quel paese decenni di lotte femministe per l'emancipazione sessuale.
Da forma alla malvagità primordiale dell'uomo tramite un tizio che si aggira nudo tra le campagne, incarnazione del Green Man, il quale stalkerizza la protagonista appostandosi fuori dalla sua finestra in una scena che dovrebbe trasmettere suspense, ma che finisce per indurre al riso data l'immagine di un uomo nudo che fa nascondino dietro una donna ignara.
Non controlla la costruzione di determinate scene, come quando, durante il climax, stacca direttamente su di un primo piano di Rory Kinnear che urla ossessivamente, generando genuine reazioni ilari.
Decide di aprire il film con la sequenza della morte di James, ma la porta in scena con una ralenty "artsy" come uno Zack Snyder qualunque e la appaia ad una canzone sull'importanza della libertà che fa sembrare il tutto come parte di una commedia demenziale piuttosto che di un serissimo thriller che vuole essere una forte metafora sociologica (e il rimando a "The Wicker Man", con l'accoppiata campagna come setting primordiale/canzone popolare rende il tutto ancora più arrogante).
Chiude il film con l'immagine del maschio che viene al mondo da un essere androgino (reinterpretando, nuovamente, il mito di Sheela na-Gig) , contraddicendo il mito (autoaffermato) della distinzione originaria tra generi per il solo gusto di creare immagini scioccanti, che tra l'altro ricalcano il climax di "Annientamento".
Per lo meno dimostra una forte capacità di creare immagini evocative; anche se poi non riesce a resistere alla tentazione di citare l'amato Tarkovsky ad ogni occasione, come uno studentello qualsiasi.
Data la tematica e il modo scostante e violento con cui viene trattata, gli spettatori più eruditi potrebbero forse pensare ad un paragone con il cinema di Marco Ferreri, anch'esso costellato di figure maschili mostruose che manipolano, sfruttano e distruggono le donne. Ma a differenza del compianto cineasta nostrano, Garland non solo non controlla scrittura e messa in scena, ma ammanta il tutto con una presunzione fastidiosa, aggravata dal fatto che non fa sconti, non crea nessuna qualità redimente per il maschio (nel cinema di Ferreri, una di queste era la paternità) e non ha una carica grottesca che alleggerisca i toni o li esasperi davvero quando necessario, sfociando sovente nel ridicolo involontario. Quindi è meglio lasciare riposare in pace l'autore milanese e limitarsi al massimo riscoprirne il lascito, tutt'oggi essenziale.
Quando poi ci si rende conto che il buon Garland ha scritto tutto il film di suo pugno, negando quindi qualsiasi effettiva prospettiva femminile su storia, caratterizzazione, tono e simbolismi, un dubbio si affaccia prepotente alla mente: siamo sicuri che alla base di tutto ci sia una forma di sincerità? Garland crede davvero in quello che dice o ha deciso di forgiare questo apologo arrogante ed ebete solo per conformarsi alla moda del cinema femminista oltranzista odierno?
La verità, alla fin fine, la conosce solo lui, ma può certamente andare fiero di una cosa: "Men" potrebbe ben sottrarre a mani basse a "Black Christmas" il titolo di film veterofemminista più cretino mai concepito; almeno la Takal, nella sua furia cieca, aveva la decenza di presentare un tipo di maschio non misogino.
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