mercoledì 25 giugno 2025

28 Anni Dopo

28 Years Later

di Danny Boyle.

con: Alfie Williams, Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson, Ralph Fienness, Jack O'Connell, Erin Kellyman, Sam Locke, Emma Laird.

Horror

Regno Unito, Usa 2025














---CONTIENE SPOILER---

L'implosione della piccola casa di produzione Fox Atomic non ha certo causato chissà quali danni all'industria cinematografica americana, nella quale l'ascesa e caduta di piccole succursali delle major non è cosa rara. Forse l'unica vera conseguenza è stata l'arrivo di 28 Anni Dopo a circa diciotto anni di distanza da 28 Settimane Dopo, primo sequel del cult di Danny Boyle 28 Giorni Dopo del 2002, ad oggi tra i suoi film più apprezzati in assoluto e unico altro cult assodato nella sua carriera dopo il generazionale Trainspotting.
Un rimando che però ha permesso proprio a Boyle e ad Alex Garland, qui di nuovo nelle vesti di sceneggiatore, di rimettere mano alla loro creatura, dopo che Juan Carlos Fresnadillo aveva fatto un lavoro a dir poco dimenticabile con il precedente film. Une benedizione in incognito? In realtà no, perché questo terzo film della serie sui rabbiosi inglesi oscilla costantemente tra l'insipido e l'urticante.



















Sono passati ventotto anni dall'inizio dell'epidemia di rabbia che ha sconvolto il Regno Unito e la piaga non ha fatto che diffondersi a dismisura per tutta l'isola. I sopravvissuti vivono asserragliati in sparuti villaggi-fortezza, mentre le campagne sono in mano agli infetti. 
In un isola della Scozia, il giovane Spikey (Alfie Williams) viene avviato alla caccia dal padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson), episodio che ne sancisce l'ingresso nell'età adulta in una società riplasmatasi per sopravvivere all'apocalisse. La madre, Isla (Jodie Comer), tuttavia, soffre di un morbo sconosciuto che rischia di ucciderla. Forse potrebbe aiutarla il misterioso dottor Kelson (Ralph Fienness), il quale vive a qualche chilometro nell'entroterra, circondato da un misterioso incendio...






















La sceneggiatura di Garland è quanto di più pigro si possa immaginare. Tutta la storia, il romanzo di formazione del giovane Spikey, è sconclusionata e non solo per quel finale aperto, preludio ad un "secondo" capitolo le cui riprese si sono concluse pochi giorni fa; per tutta la durata del film si ha la sensazione che manchi qualcosa, che la catarsi, la quale arriva nella scena del memento mori, l'unico vero punto emotivo del film, non sia davvero risolutoria.
Questo perché Garland setta male gli elementi di base, il conflitto da Spikey e il padre. Un conflitto che poggia sulla volontà dell'uomo di non prendere contatti con il medico, interpretata dal figlio come infedeltà, vista anche la "scappatella" della notte prima. L'avvio della fuga dall'isola è così forzata, con un figlio che si ritrova letteralmente "dalla sera alla mattina" in conflitto con un genitore il quale fino a qualche ora prima era il suo pilastro umano e materiale, con tanto di coltello puntato alla gola in maniera gratuita e forzata.
















La caratterizzazione del conflitto umano è solo una delle ingenuità che Garland commette. Per tutto il film, costella la storia di simbolismi religiosi: l'incipit, che trova un continuo effettivo solo nell'epilogo, con il padre-monsignore che inneggia all'apocalisse, il tempio delle ossa con tanto di altare cerimoniale, la notte passata nei resti di una cattedrale; simbolismi che non trovano mai un giusto significato, non preludono a nulla e danno la sensazione di essere inseriti solo per cercare di dare al tutto una profondità che in realtà manca costantemente.
Al di là del vacuo simbolismo cristiano, Garland e Boyle sembrano voler tracciare un parallelo "romeriano" tra l'isolazionismo militarista della post-apocalisse e il colonialismo britannico degli inizi del XX secolo (la recita di "Boots" di Kipling usata per scandire l'inizio della caccia, già divenuta cult, così come i filmati di repertorio). Ma il parallelo risulta davvero impietoso visto il contesto fantastico del film, il quale non riesce mai davvero a trasmettere il senso di violenza bigotta che vorrebbe. La quale viene evocata anche in qualche sparuto rimando al folk horror, con tanto di maschere indossate dagli isolani, i quali divengono quasi delle versioni distopiche dei pagani di The Wicker Man, senza però che nessun vero significato riesca a trasparire, visto che il contesto apocalittico viene utilizzato male dagli autori. Cosa che diventa praticamente insostenibile nel finale, con l'ingresso in scena degli "hooligan" che si divertono a massacrare gli infetti: non si può pretendere di provare pietà per i mostri se per tutto il film vengono caratterizzati esclusivamente come una minaccia, persino quando un elemento di trama quasi essenziale riguarda la possibilità di una loro guarigione (e qui Garland ben avrebbe fatto a riguardarsi La Terra dei Morti Viventi).
Dulcis in fundo: quasi ogni situazione di pericolo viene risolta grazie all'uso di un deus ex machina che salva i personaggi, prova di come Garland non si sia voluto sforzare più di tanto per dare vera dinamicità alle scene.


















Uno script che, in buona sostanza, predilige lo stile ai contenuti. Un difetto che ritorna anche nella messa in scena di Danny Boyle.
Se nel primo film optava per uno stile brutale fatto di inquadrature sghembe e sgrammaticate, montaggio veloce e immagini a bassa risoluzione per restituire il senso di disperazione e desolazione del mondo nel quale i personaggi si muovevano, qui Boyle gira tutto con un iPhone 15 Pro Max e intercala le classiche inquadrature ruvide con virtuosismi a là Wachosky per le scene  più concitate. Il risultato non solo è la più totale mancanza di tensione, data da un ritmo sempre alto, ma anche in una spettacolarizzazione inutile dello splatter, il quale non riesce mai davvero ad essere disturbante, solo spettacolare, con frattaglie e geyser di sangue che eruttano dai mostri, per di più giustapposti a musiche pop che creano uno stile praticamente punk che trasforma il tutto in sorta di commedia gore dove però tutti sono serissimi.
Quando poi ci si accorge che ogni elemento caratterizzante è ripreso da qualcos'altro, in un trionfo totale di derivatività assortita, il senso di disagio si fa forte: impossibile non vedere nella coppia padre-figlio che vanno a caccia armati di arco in un mondo post-apocalittico l'influenza di The Last of Us, sia il gioco che la serie, e quindi di rimando del The Road di Cormac McCarthy e John Hillcoat; impossibile non rivedere nell'infetto alfa un rimando a L'Attacco dei Giganti, soprattutto quando insegue i protagonisti fino alle mura esterne del villaggio. 


















28 Anni Dopo vorrebbe così essere un dramma umano immerso nei meandri dell'inferno post-apocalittico, ma mostra il fianco sia quando si tratta di caratterizzare i personaggi umani in modo credibile, sia quando si tratta di dare un significato più profondo al contesto fantastico. Un passo indietro per Boyle e Garland, il cui primo exploit resta tra i loro lavori più riusciti, nonché un episodio davvero poco riuscito di una serie che si appresta a divenire l'ennesimo caso di "telefilm al cinema", la quale poco o nulla può davvero dare allo spettatore avvezzo al cinema di genere.

lunedì 23 giugno 2025

Cobra Verde Recensioni Cinema diventa Orizzonte d'Argento




Cobra Verde cambia pelle.

I motivi sono diversi. 

In primis la volontà di allontanarmi dalla figura di Klaus Kinski.

Sebbene non rientri in quel gruppo di persone che tendono a "cancellare" chi ha commesso atti deprecabili, non posso continuare ad ignorare la vita privata del fu Kinski, la quale è stata deprecabile a dir poco, dunque prenderne le distanze è forse la cosa migliore da fare.

C'è poi la necessità di svecchiare in parte il format del blog. 
Non si parla di grossi stravolgimenti, quanto della volontà di diversificare l'offerta al lettore. Forse, tempo permettendo, affiancandovi anche un canale YouTube con contenuti a parte.

Se volete quindi leggere le pagine di Cobra Verde, a partire dal prossimo lunedì cercate Orizzonte d'Argento all'URL: orizzontedargento.blogspot.it.

lunedì 9 giugno 2025

Predator: Killer dei Killer

Predator: Killer of Killers

di Dan Trachtenberg e Joshua Wassung.

Animazione/Azione/Fantastico/Splatter

Usa 2025


















I fan di Predator possono dormire sogni tranquilli: da quando Disney ha resuscitato il brand con Prey, sembra che l'interesse verso gli smembramenti del cacciatore alieno più famoso di sempre sia risorto. E quando si tratta di spremere un brand, si sa che Disney la fa da maestra. Ecco quindi che solo quest'anno escono ben due prodotti con il marchio Predator: Badlands, previsto per novembre, oltre che questo Killer of Killers; ed entrambi sviluppati dal Dan Trachtenberg di Prey.
Killer of Killers segna poi un ulteriore primato, ossia il primo prodotto d'animazione dedicato al cacciatore Yautja, oltre che uno dei primi lungometraggi ad essere sviluppati totalmente con l'Unreal Engine. E se l'animazione è tutto sommato di buona fattura, persino al netto di uno stile grafico che a prima vista sembrerebbe stonare con la storia che racconta, questo cartoon lascia perplessi come sempre per una scrittura tutt'altro che brillante.














Scrittura che poggia su di una costruzione ad episodi: tre storie ambientate in tre epoche diverse, con un ultimo atto che riunisce i tre protagonisti, ossia Ursa, una feroce guerriera vichinga, Kenji, spadaccino ed erede reietto del titolo di samurai, oltre che Torres, giovane pilota americano della Seconda Guerra Mondiale.
Una struttura che non può che far credere che questa operazione all'inizio fosse pensata per una serie, ma che sia stata rimaneggiata in corso d'opera come lungometraggio ad episodi, come successo qualche anno fa con lo sfortunato Books of Blood, sempre prodotto da Disney per la piattaforma Hulu. E le dichiarazioni di qualche giorno di Tony Gilroy, secondo le quali Disney pare abbia affermato come "lo streaming sia morto", non possono che cementificare tale impressione.



















Struttura a parte, la vera perplessità sulla scrittura di Killer of Killers riguarda la caratterizzazione dei personaggi. Passi anche che Torres si comporti in maniera irrazionale perché è un giovanissimo pilota, ma sentirlo parlare come un teenager moderno fa cascare un po' le braccia. 
Meno buoni si può essere verso la storia di Kenji, in cerca di vendetta verso il fratello il quale si è semplicemente limitato a seguire gli ordini del tirannico padre, in un contesto storico, quello del Giappone del XV secolo, dove difficilmente un nobile che decide volontariamente di contravvenire alle direttive del genitore sarebbe sopravvissuto al peso della vergogna.
Più particolare è il caso della vichinga Ursa, condottiera donna in un mondo dove benché alle donne fosse concesso di combattere al pari degli uomini, difficilmente sarebbe riuscita a guidare una razzia. Il tutto mosso anch'esso dalla solita vendetta per un torto subito in gioventù, tanto che poi la storia di Torres, "semplice" soldato che si fa valere in battaglia, finisce per risultare fresca, ma, al contempo, anche per stonare. Va da sé che nel suo passare da cattiva irredenta e ultraviolenta a figura materna, paradossalmente è proprio Ursa ad avere la caratterizzazione più sfaccettata, restando pur sempre un personaggio estremamente antipatico. Di converso, fa davvero ridere vedere un pilota della Seconda Guerra Mondiale che impara a pilotare veicoli alieni nel corso di una manciata di secondi.


















Killer of Killers cerca poi di fare chiarezza sulla mitologia degli Yautja, stabilendo come non siano semplici cacciatori in cerca di facili trofei, ma dei "killer di killer" appunto, cacciatori di assassini, il che cozza con lo status di soldati sia della gran parte dei personaggi dei precedenti film, sia con quello di, sempre lui, Torres e i suoi commilitoni: possibile che una specie tecnologicamente avanzata e con il culto dello scontro armato non sappia distinguere tra soldati e assassini?
Tutti difetti di scrittura imputabili non solo (e forse non tanto) a quel Trachtenberg fortemente convinto del fatto che i Comanche fossero così stupidi da aver scoperto la caccia sugli alberi solo nel XVIII grazie ad una ragazzina agitata, quanto al co-sceneggiature Micho Robert Rutare, qui alla sua prima ventura nelle produzioni di serie A e con un curriculum di lungo corso nella peggiore serie B.
















Alla fine, Killer of Killers regala ai fan quello che vogliono, ossia circa un'ora e mezza scarsa di cacciatori alieni che sventrano tipi tosti, qui con un livello di violenza inedito per la serie, pur da sempre caratterizzata da forti dosi di splatter. Se ci si accontenta di così poco, lo si potrebbe anche apprezzare, altrimenti non si può che ridere davanti ad una scrittura adolescenziale, anche quando bilanciata da una messa in scena di buona caratura.

giovedì 5 giugno 2025

Diva Futura

di Giulia Louise Steigerwalt.

con: Pietro Castellitto, Barbara Ronchi, Tesa Litvan, Denise Capezza, Lidija Kordic, Alfonso Postiglione.

Biografico/Drammatico

Italia 2024 












E' possibile rievocare con nostalgia gli esordi del porno italiano senza sembrare ipocriti, ora che viviamo tra le macerie del berlusconismo e con i postumi del culto dell'apparire?
Perché creare un biopic su Riccardo Schicchi e la sua casa di produzione, Diva Futura, solleva immediatamente tale cocente quesito. E questo, ovviamente, perché l'Italia nella quale Schicchi iniziò la sua carriera è stata immediatamente spazzata via assieme alla DC, sostituita dallo sfruttamento delle forme femminili a fini commerciali in quella televisione che tanto le ostracizzava, nonché dall'esaltazione della voracità sessuale maschile reindirizzata verso il consumo compulsivo di qualche prodotto.
Benché pioniere, Schicchi è stato sostanzialmente sorpassato da chi ha avuto le sue stesse intuizioni, ma ha saputo applicarle allo spettacolo mainstream, con conseguenze disastrose sul piano culturale e sociale.
Giulia Louise Steigerwalt, attrice e sceneggiatrice di lungo corso e qui al suo secondo lungometraggio, forse è cosciente di tale aspetto, così come dei molti lati oscuri della sua figura umana, per questo struttura il suo Diva Futura come una commistione tra rievocazione e dramma puro, finendo per creare un'opera fatalmente debole e persino poco sincera.





















Un film, il suo, scisso in due parti distinte. La prima, forse la più riuscita, è una rievocazione dei primissimi anni di Diva Futura e dell'avvento delle sue star, Ilona Staller, Moana Pozzi e in parte Eva Henger, oltre che dell'ingresso nell'azienda di Debora Attanasio, inizialmente segretaria e collaboratrice di Schicchi. Una rievocazione "scorsesiana", che condensa l'ascesa al successo e l'imposizione nel costume nazionale con un montaggio veloce, movimenti di macchina fluidi e musica pop. 
Lo Schicchi qui ritratto è un libertino a-morale, mai immorale, un uomo che ha il culto delle forme femminili e detesta ogni forma di maschilismo. Il nudo diventa così celebrazione ma anche liberazione di una donna che la società conservatrice ancora vuole a-sessuato. Il che è anche in parte vero: benché il filone del "chiappa e spada" imperasse nei cinema e anche nel cinema "impegnato" il nudo in Italia non mancasse mai davvero, la rivoluzione sessuale, alla fine degli anni '70, non aveva portato ad una vera forma di emancipazione femminile, con la donna che doveva essere sempre e comunque vista come madre e moglie, pena lo scandalo.
L'altra faccia di una tale celebrazione è, appunto, quella di farla sembrare una forma nostalgica di un mondo che sembra appartenere ad un'altra era geologica. Nel XXI secolo, l'Italia è forse l'unico Paese rimasto al mondo dove si è fin troppo celebrata la liberazione sessuale e l'esaltazione mediatica del corpo femminile e quelle immagini di belle donne libere di spogliarsi non possono più essere viste come liberatorie, né come il simbolo di una ribellione della donna contro una visione sociale di stampo patriarcale che le vuole solo come madri e mogli. Per intenderci: dopo le veline, le letterine, le paperette e Flavia Vento messo sotto il tavolo di Teo Mammuccari (tra l'altro citato nello stesso film), il nudo e il porno, in Italia, non sono che la celebrazione della fantasia maschile e nulla più.
E' per questo che, dopo circa un'ora, Diva Futura cambia pelle e si muove verso i canonici territori del drammone all'italiana.


















In questa seconda parte, la Steigerwalt condensa tutti i drammi che hanno afflitto Schicchi fino alla sua tragica morte: il collasso dell'industria del porno in video, la crisi coniugale, la malattia. Con lui, in parallelo, assistiamo anche ai drammi di Moana, anch'ella segnata dalla crisi artistica e politica fino alla morte prematura per malattia, e, in tono minore, a quelli della Staller, segnata dal conflitto per l'affidamento del figlio, oltre che del tragico ingresso di Eva Henger nell'industria del cinema a luci rosse.
Il tono cambia radicalmente e ogni scena viene porta su schermo nel modo più ovvio, con gli attori che si scambiano battute sulla tragedia di turno. Scrittura e messa in scena divengono quindi irrimediabilmente convenzionali, tanto che l'unico tocco di classe continua ad essere anche qui la ricostruzione dei filmati di repertorio con gli attori, oltre che il lavoro degli attori. Il fianco, tuttavia, il film lo scopre davvero quando si incarta tra flashforward e flashback, appaiati talvolta in modo arbitrario, ma soprattutto quando decide di affrontare il tema, scottante, su come lo sdoganamento della pornografia abbia cambiato la società italiana.





















Sarebbe stato interessante declinare la carriera di Schicchi sulla falsariga del deperimento del costume italiano. Ovviamente non si può giudicare (più di tanto) un film per quello che non fa, ma qua e là Diva Futura sembra anche voler ritrarre il cambiamento di costume che, volente o nolente, la diffusione dell'erotismo spicciolo ha generato. 
Assistiamo così alla scena nella quale Schicchi scopre come esistano generi di pornografia del tutto disgustosi, che umiliano la donna per il ludibrio del pubblico maschile e come questi prodotti, bene o male, siano stati generati indirettamente proprio dopo che il pubblico si è assuefatto all'eros "pulito" che lui vendeva. Il consumo di pornografia porta inevitabilmente alla degenerazione morale diffusa? Un quesito spinoso, che il film evoca, ma subito mette da parte in favore del territorio sicurissimo del dramma umano.
Allo stesso modo, assistiamo all'esordio nella pornografia internazionale di Eva Henger, esperienza che lei stessa ha definito come traumatica. L'industria dell'eros finisce così per sfruttare quei corpi fino a distruggerli? Anche questa tematica viene sollevata solo per essere subito messa da parte, forse per paura delle risposte, le quali potrebbero essere davvero scomode e far sembrare lo stesso Schicchi come uno sfruttatore, cosciente o meno che fosse.
Di fatto, la degenerazione del costume italico viene suggerita, ma mai davvero affrontata: si, il costume è cambiato, si, il costume è cambiato in peggio; la colpa è di Schicchi e di quelli come lui? Può darsi di si, può darsi di no, chi lo sa. Quando poi ci si accorge che la figura di Silvio Berlusconi viene evocata solo ed esclusivamente per datare temporalmente la morte di Moana Pozzi, ci si rende conto di come forse sarebbe stato meglio prendere una distanza chirurgica da determinati quesiti, lasciandoli magari fuori dal discorso. Soprattutto quando, nel finale, si torna alla celebrazione dell'eros libero e gioioso, in quella che appare una chiusa davvero poco sincera.




















"Questione morale" a parte, il ritratto di Schicchi che emerge è anch'esso contraddittorio. Per tutto il film viene celebrato come un pioniere e ritratto come una vittima dei falsi moralismi italiani, soprattutto nella scena dell'arresto, che si imputa al suo ruolo di produttore pornografico. Arresto che nella realtà è avvenuto nel 2007, periodo nel quale di certo un ruolo del genere non poteva generare scandalo, né nel quale il suo arresto potesse essere un modo per "silenziarlo" o eliminarlo dalla concorrenza. Il film però scopre le carte solo nell'ultima scena, sui titoli di coda, quando si da atto delle accuse e delle condanne, le quali non hanno nulla a che vedere con la morale o con il costume.
Un ritratto che più che ambiguo, si fa contradditorio, che forse vuole essere controverso come controversa fu di fatto la sua figura, ma che più che nell'ambiguità finisce per sprofondare nella schizofrenia. Questo perché forse era impossibile fare un ritratto del tutto assolutorio di Schicchi, ritrarne le luci senza ritrarne le ombre. Prendere una posizione ambivalente porta inevitabilmente alla contraddizione e, anche qui, meglio sarebbe stato ritrarlo con il giusto distacco.





















Diva Futura è così un'opera sicuramente interessante, ma malriuscita, che alterna una prima parte ispirata ad una seconda fiacca, ovvia e contraddittoria. A salvarsi è così solo il cast, con un Pietro Castellitto affiatato, una Barbara Ronchi perfettamente in parte e con una Denise Capezza che, sebbene non somigli più di tanto alla vera Moana, riesce a riprodurne perfettamente la solarità e il carisma.

lunedì 26 maggio 2025

Mission: Impossible- The Final Reckoning

di Christopher McQuarrie.

con: Tom Cruise, Hayley Atwell, Simo Pegg, Ving Rhames, Pom Klementieff, Esai Morales, Greg Tarzan Davis, Rolf Saxon, Angela Bassett, Shea Wigham, Henry Czerny, Holt McCallany, Janet McTerr, Nick OffermanHanna Wendingham, Tramell Tillman, Mark Gatiss, Cary Elwes, Caty O'Brian.

Azione/Thriller

Usa, Regno Unito 2025











Tutte le serie giungono al termine. O, per lo meno, è bene che arrivati ad un certo punto si decida di smettere di continuare determinati franchise; il che diventa quasi una necessità quando il concept su cui sono basati risale ai tempi della Guerra Fredda. 
Qualche anno fa è toccato all'agente 007 andare (temporaneamente) in pensione, quest'anno tocca a quello che è praticamente il suo equivalente americano, l'Ethan Hunt di Tom Cruise, che dopo quasi trent'anni di onorato servizio decide finalmente di appendere gli stivali da stuntman al chiodo.
Per Cruise è praticamente una necessità, sia a causa dell'età anagrafica, sia per quella voglia, esternata un annetto fa, di tornare a ruoli che lo portino a dimostrare nuovamente di non essere solo un corpo in grado di compiere imprese olimpioniche; tanto che l'implosione del progetto di The Movie Critic di Tarantino, del quale avrebbe dovuto essere protagonista, e le sue recenti esternazioni sulla lavorazione di Top Gun 3 non possono che mettere tristezza.
The Final Reckoning non è però un semplice biglietto d'addio (o arrivederci che sia) per la serie inaugurata da Cruise e Brian De Palma nel 1996, quanto anche e soprattutto un confronto con il passato, con quanto è stato fatto dalla serie sia al cinema che in televisione. Perché è qui, oltre che nel primo film, che l'influenza di quello storico telefilm si fa sentire.



















Andata in onda tra il 1966 e il 1973, con un successivo revival andato in onda tra il 1988 e il 1990, Missione Impossibile era una serie a suo modo innovativa per i suoi tempi. Benché sempre basata su di una narrazione episodica, portava in scena le missioni della Impossibile Mission Force, gruppo di ex delinquenti arruolati dalla NSA per le loro capacità di ingegneri e truffatori. Ogni missione era basata su di un piano rivolto ad ingannare il nemico di turno, solitamente l'alto papavero di qualche immaginaria nazione straniera, il quale, con una serie di travestie e false piste, finiva per fare il gioco delle spie americane. 
Al di là del modo in cui le trame erano congegnate, per l'epoca era innovativo vedere sul piccolo schermo una tensione costruita praticamente tramite le sole immagini, con un uso certosino degli inserti e del montaggio, in un linguaggio che a tratti si avvicinava al miglior cinema di genere.
Al cinema, la serie di Mission: Impossibile è sempre stata sinonimo di azione ben eseguita, di stunt pazzeschi, letteralmente di Tom Cruise che fa cose matte mettendo a repentaglio la propria incolumità per il divertimento del pubblico, generando, a lungo andare anche una ripetitività tangibile.
The Final Reckoning sostituisce il gusto per l'azione esagerata e fracassona con quello per la tensione, almeno per la maggior parte della sua durata.




















Tutta la prima parte è dedicata al piano di Hunt per sconfiggere la terribile IA chiamata "l'entità". Oltre a riprendere i fili di trama lasciati in sospeso con Day of Reckoning, McQuarrie e Cruise costruiscono la tensione grazie allo status di fuggitivi di Hunt e soci, ora braccati tanto dai devoti della macchina, quanto dal governo americano. L'impossibilità di discernere alleati e amici, oltre ai soliti colpi di scena che ribaltano la situazione di turno, con un uso tutto sommato sapiente dei dialoghi, portano davvero ad una sensazione di suspense, la quale praticamente per la prima volta non sfocia nella azione pura se non nella seconda parte del film.
E' qui che The Final Reckoning torna davvero ad essere un Mission: Impossible filmico. E come i migliori capitoli della serie, mantiene tutte le promesse riguardo alla spettacolarità, con un inseguimento finale in aeroplano adrenalinico, per quanto troppo lungo, e la lunga discesa nel relitto del sottomarino russo che fonde bene tensione e spettacolo, benché nel finale sfoci nel ridicolo involontario, con la fuga di un sessantaduenne Cruise dagli abissi artici da nudo (!!!). 



















Il confronto con il lascito del passato si ha quando si decide di mettere in connessione per la prima volta i capitoli del franchise. Tornano così elementi del primo film, alcuni dei quali davvero curiosi; soprattutto, paradossalmente, si è deciso di connettere questo ultimo atto con quel Mission: Impossibile III che non solo rappresenta ancora oggi il peggiore exploit della serie, ma ha coinciso anche con il punto più basso della carriera di Cruise. Volontà di dare dignità a qualcosa che non ne aveva una ventina di anni fa e non può averne oggi? Può darsi, fatto sta che per fortuna quei tempi sono passati.
A perplimere, semmai, è il tono quantomai serioso con cui il tutto viene portato in scena. I tocchi di humor talvolta non mancano, ma sono davvero sparuti nelle quasi tre ore di durata. La storia, di per sé stessa, viene approcciata con una vis drammatica da capogiro, benché sia ai limiti del ridicolo: uno Skynet praticamente realistico decide di scatenare il genocidio della razza umana per farla evolvere, avallato da un gruppo di fanatici i quali si sono infiltrati negli alti ranghi dei governi mondiali (ovviamente qualsiasi riferimento a Scientology è casuale). L'implicazione diretta è che, in sostanza, Internet è il Male Assoluto, un diavolo di silicio in grado di creare un Armageddon atomico per puro capriccio perché noi umani abbiamo deciso di affidarci totalmente alle macchine.
Ridicolo? Sicuramente. Retorico? Fin troppo, tanto che, complice la battuta sul "passare troppo tempo su Internet", il tutto a tratti sembra lo sproloquio di un sessantenne contro i giovani che "non sanno fare nulla senza lo smartphone".



















Eppure, al netto di tutte le ingenuità possibili, il monito di questo ultimo dittico sulle peripezie di Ethan Hunt non può che portare ad un riflessione su quanto noi esseri umani dipendiamo dalla tecnologia. Non tanto nell'organizzazione ed esecuzione di compiti anche importanti, come l'amministrazione governativa e militare, quanto nell'approcciarci alla realtà: se il nostro pensiero viene formato esclusivamente da quanto apprendiamo tramite uno schermo connesso alla rete, allora la nostra mente può essere manipolata nella più semplice delle maniere. Un monito vecchio di decenni, che tanta narrativa cyberpunk ha già portato alla ribalta, ma che oggi come non mai appare urgente.
Più che un pezzo di fanta-filosofia a là William Gibson, The Final Reckoning è ovviamente nulla più che il classico mix di thriller e azione. Tutto sommato ben condotto, intrattiene a dovere e stupisce nel suo non abusare della spettacolarità gratuita. Per Ethan Hunt forse questo poteva essere l'unico congedo possibile, visto la stanca che stava cominciando ad affliggere le sue avventure.

lunedì 19 maggio 2025

Werewolves

di Steven C.Miller.

con: Frank Grillo, Katrina Law, Lou Diamond Phillips, Ilfenesh Hadera, James Michael Cummings, Kammdym Gary, Lydia Styslinger, Daniel Fernandez.

Azione/Horror

Usa 2024
















Quando si pensa a "gloriosa e onesta serie B", si pensa ad un film come Werewolves e, in generale, al cinema di Steven C. Miller. Un uomo che nel 2012 ha partorito quel remake di Silent Night, Deadly Night che non solo ne sapeva cogliere bene o male lo spirito, ma ne riusciva a reinventare efficacemente il racconto. Con Werewolves fa qualcosa di meno e al contempo qualcosa di più, ossia un film che negli anni '80 avrebbero tirato fuori quelli della Cannon o della New World Pictures e, senza pretendere di rivoluzionare nulla o dire qualcosa di nuovo, lo porta in scena con una serietà ridicola e con tanta onestà; ma l'onestà, purtroppo, non sempre basta.


















Un' onestà che parte dalla trama: una "superluna" trasforma gli esseri umani in lupi mannari, cosa già successa una volta e che ora sta per ripetersi. Ma a questo giro c'è Frank Grillo, biologo molecolare, il quale deve badare alla famiglia del defunto fratello, mentre ovviamente cerca un modo per curare questo morbo.
Una trama talmente assurda da diventare immediatamente credibile. In fondo, cosa c'è di più semplice di una notte di luna piena alla quale sopravvivere quando si deve imbastire un racconto di tensione con i licantropi? E Miller non vuole usare questa sorta di "Notte del Giudizio con i lupi mannari" per creare metafore sull'innata violenza umana, né pretende di riscrivere le regole della tensione, solo condurre il tutto nel modo più diretto possibile.


















Certo, le stoccate sociologiche non mancano: il "cattivo" di turno è un survivalista MAGA con bandiera americana pitturata sulla faccia che approfitta del delirio per sfogare i suoi istinti violenti, ma anche questa sua inclusione non vira il racconto dalla pura azione.
Azione che Miller porta in scena in modo claudicante: il montaggio veloce e confusionario talvolta cerca di coprire il basso budget, rivelandosi però sempre come una scelta poco felice, tanto che nessuna scena risulta davvero adrenalinica o tesa.
















Miller e lo sceneggiatore Matthew Kennedy infatti tirano su tutta la vicenda come un action piuttosto che come un horror vero e proprio. Tutto è ridotto ad un viaggio verso la casa della cognata di Grillo, tutti i personaggi sono messi al servizio degli eventi, tanto che anche i risvolti più interessati vengono lasciati fuori scena, come la tribù asserragliata nel mercato o i cacciatori di lupi. 
Cosa funziona alla fine? Poca roba. 
Gli attori sono ai limiti del miscasting, con Frank Grillo che è lo scienziato più improbabile che si sia visto al cinema dai tempi di Denise Richards in 007 Il Mondo non Basta, Katrina Law ci prova anche, ma non riesce ad essere empatica quanto il ruolo richiede e il pur buon Lou Diamond Phillips viene sprecato nei panni del capo scienziato fatto secco alla fine del primo atto.
Ma alla fine non ci si può non commuovere davanti ai quei lupacchioni fatti con effetti analogici o quelle sparatorie che pur ci provano ad essere reminiscenti del miglior action anni '80. E Werewolves non è se non quello che vuole essere, ossia serie B senza la minima pretesa. Senza neanche chissà quale raffinatezza, certo, ma lo stesso senza vere pretese.

martedì 13 maggio 2025

Thunderbolts*

di Jake Schreier.

con: Florence Pugh, Lewis Pullman, Sebastian Stan, David Harbour, Julia-Louis Dreyfus, Wyatt Russell, Olga Kurylenko, Hannah-John Kamen, Geraldine Viswanathan.

Azione/Fantastico

Usa, Australia, Canada 2025
















---CONTIENE SPOILER---

I Marvel Studios stanno risalendo la china? Al momento sembrerebbe di si.
Perché di certo Captain America- Brave New World è un film mediocre e insipido, ma decisamente un passo avanti rispetto all'inqualificabile The Marvels; così come Daredevil- Rinascita è l'ombra di quel primo Daredevil televisivo che una decina d'anni fa incantò gli spettatori, ma è sicuramente migliore di tanta spazzatura in streaming targata Marvel vista su Disney+. E persino quel Agatha All Along, da molti deprecato, è un'operazione riuscita e simpatica.
Thunderbolts* sta ricevendo parecchi consensi finanche in quel fandom che un tempo idolatrava qualsiasi cosa avesse il logo della Casa delle Idee, ma che ora ne depreca qualsiasi incarnazione, segnando un primo passo avanti nel ritorno alla forma di una casa di produzione la cui caduta in disgrazia era forse inevitabile. Il che è paradossale se ti tiene conto sia in parte di ciò che effettivamente è l'operazione alla base del film, sia del gruppo di supertizi al quale si ispira.



















Il primo gruppo a portare il nome del film, creato da Kurt Busiak nel 1997, era composto da un manipolo di supercriminali che si spacciava per supereroi, guidati da quel Barone Zemo visto anche nel MCU, in un periodo nel quale  i Vendicatori e i Fantastici Quattro erano deceduti nell'evento Onslought, lasciando l'universo 616 privo dei suoi eroi più potenti. Dei cattivi che iniziano a "fare giustizia" come mezzo per coprire le proprie malefatte, ma che finiscono per trovare un vero senso di giustizia nelle loro azioni, divenendo, a loro modo, dei buoni. Una trovata intrigante, che però ha avuto poco fortuna, nonostante tra le varie incarnazioni i Thunderbolts siano stati in giro per una quindicina d'anni abbondante.
D'altro canto, la formazione più celebre del gruppo, risalente ai tempi di Marvel Now!, vedeva tra le fila alcuni degli antieroi Marvel più amati, ossia Elektra, il PunitoreDeadpool e Agent Venom, guidati in battaglia dall'Hulk rosso Thunderbolt Ross.


La formazione del film, invece, si rifà alla serie più recente, probabilmente tirata su appositamente per scopi pubblicitari, e vede un gruppo creato letteralmente con gli scarti del MCU: U.S. Agent da The Falcon and the Winter Soldier, quel "Taskmaster-Terminator" visto in Black Widow, Red Guardian, quella Ghost vista la prima e ultima volta nel brutto Ant-Man and The Wasp, Bucky Barnes e Yelena Belova, che assume il ruolo di leader al servizio di Valentina De Fontaine, praticamente nuova Nick Fury, il cui allineamento morale va però dal grigio al nero cupo. Un gruppo di "sfigati", supereroi di riserva in cerca di rivalsa che nel film alla fine diviene praticamente la nuova formazione degli Avengers, da cui l'asterisco del titolo, in un arco narrativo tutto sommato piatto.
Decisamente più interessante è l'inclusione, nei panni dell'antagonista, di Sentry, uno dei personaggi più singolari di tutta la vita editoriale Marvel.



















Sentry non è che il Superman della Marvel, visto che ne ha praticamente tutti i superpoteri e persino una grossa S sul costume. Tutto qui? Certo che no.
Il suo creatore è quel Paul Jenkins che, soprattutto grazie alla sua run su Hellblazer, si è imposto come un narratore anticonvenzionale persino quado si cimenta in operazioni più mainstream. E la sua prima miniserie sul Superman Marvel di convenzionale aveva ben poco.



Introdotto come un uomo comune, Sentry è Robert Reynolds, alcolizzato di mezza età che inizia ad avere strani ricordi su di un passato da supereroe e, contemporaneamente, visioni future del ritorno della sua mortale nemesi, una creatura amorfa chiamata Void. Pian piano i superpoteri iniziano a manifestarsi, ma se lui è davvero un superuomo, perché nessuno ha memoria degli eventi che lo hanno visto protagonista?
Reynolds inizia così un viaggio per recuperare i ricordi perduti, incontrando tutti gli eroi dell'universo 616, fino ad una scioccante rivelazione: lui era davvero Sentry e ha combattuto, assieme agli altri eroi, Void in una battaglia che ha causato milioni di morti. Ma il vero colpo di scena in realtà è un altro: Void altro non è che la manifestazione del suo subconscio, quindi più Sentry compie azioni eroiche, più Void ha la possibilità di prendere forma fisica. L'unica soluzione era quindi quella di obliare ogni ricordo riguardo a quegli eventi.
Jenkins crea così non solo un classico eroe tormentato, ma anche una intrigante declinazione sulla necessaria coesistenza tra bene e male e sulla tematica della malattia mentale, in una delle miniserie più interessanti della Marvel post 2000. Nonché quello che è praticamente uno degli ultimi supereroi originali sfornati dalla Casa delle Idee, visto che da lì a poco si sarebbero limitati a cambiare l'identità segreta degli eroi classici.
Sentry viene poi bene o male incluso nel roaster principale degli eroi e la sua origin story rimodulata per adattarsi meglio all'universo Marvel, con tanto di collegamento al progetto del Super Soldato: i poteri gli sono stati infatti concessi da una variante della formula che aveva creato Capitan America, grazie ad un serio che aveva ingerito durante una crisi di astinenza, portando avanti la sua caratterizzazione di eroe afflitto dalla tossicodipendenza.
La seconda serie di Sentry compie poi un'operazione ardita, ma che alla fine paga, ossia includere persino Paul Jenkins come personaggio: in una simpatica mossa metatestuale, si scopre come la prima miniserie altro non fosse che un fumetto pubblicato nell'universo 616. Il vero Sentry si era messo in contatto telepatico con Jenkins e aveva ispirato quella storia, la quale è stata rielaborata dall'autore. La differenza sta nel fatto che il legame tra Sentry e Void è meno forte di quanto visto in precedenza, quindi Reynolds ora può usare più liberamente, combattendo al fianco degli eroi classici. Anche se, in un ulteriore ribaltamento, finisce per diventare il braccio armato di Norman Osborne nella miniserie Regno Oscuro, portando il caos nel mondo, culminando in una delle vignette più iconiche della storia Marvel, nella quale apre in due il dio Ares.

























Thunderbolts*, inteso come film, appare essere un'operazione derivativa. Inutile girarci attorno: questo non è altro che il Suicide Squad del MCU, con un gruppo di reietti quasi tutti privi di veri superpoteri chiamati a combattere una minaccia sovrannaturale e soverchiante per conto di una dirigente dei servizi segreti (qui anche imprenditrice) dalla moralità dubbia, in una storia immersa in un tono sarcastico e abrasivo. Forti però sono anche altre due influenze, ossia quella di The Boys per il modo in cui Sentry viene reinventato, divenendo praticamente un supereroe costruito ad hoc da un'azienda privata per scopi militari; oltre che l'influenza dell'ancora sottovalutato Legion per il modo in cui la psiche tormentata di Reynolds, qui ribattezzato con il diminutivo Bob, prende forma.
Ed è anche bene mettere in chiaro un'altra e più ovvia cosa: nonostante il film si chiami Thunderbolts, i Thunderbolts non sono il vero perno della narrazione.















Sebbene lo script tenti di mettere al centro di tutto i superproblemi di Yelena, di suo padre Alexei, del "Capitan America scartato" John Walker e persino di quella Ghost che anche qui lascia il tempo che trova, è Bob ad essere non solo il vero motore degli eventi, ma anche il vero centro emotivo di tutto il film. Se i Thunderbolts finiscono per essere delle macchiette in un film che serve praticamente solo a riunirli, con la conseguenza che tutta la prima parte risulta a tratti raffazzonata e quasi noiosa, per fortuna il modo in cui il personaggio di Sentry viene trasposto finisce per salvare il film e renderlo davvero interessante.
Bob ha innanzitutto il volto perfetto di Lewis Pullman, che riesce a comunicarne magnificamente la fragilità e le insicurezze. Void viene poi reinterpretato come non più una semplice manifestazione del subconscio del personaggio, ma come il coacervo di tutti i sentimenti negativi che reprime, una forza astratta che divora qualsiasi cosa si trovi innanzi per trasportarla in una dimensione altra nella quale ciascuno è chiamato a confrontare i propri timori e quel dolore rimosso che solitamente si cerca di seppellire nel profondo.
Tale manifestazione prende le mosse non solo dalla depressione che affligge lui così come Yelena, che qui diventa forza empatica e salvifica, ma anche dal disturbo dissociativo che ha sviluppato a causa dei traumi infantili. Una tematica brutale, che il film riesce a maneggiare tutto sommato a dovere, declinandola con la giusta sensibilità, senza scadere nel pedante, né nel patetico. E, soprattutto, dando una morale tutto sommato giusta, soprattutto per il giovane punto di riferimento del pubblico: il dolore si supera solo aprendosi al prossimo.


















Per il resto, questo Thunderbolts* è giusto un simpatico film d'azione, condotto con mano altalenante da un regista, Jake Schreirer, praticamente al secondo lungometraggio e che si è fatto le ossa con i videoclip e le serie in streaming (tra le quali spuntano episodi dei simpatici Al Nuovo Gusto di Ciliegia e Star Wars- The Skeleton Crew); una regia di buon mestiere, soprattutto nel dar vita alle scene d'azione e alle visioni, che paradossalmente incespica nei momenti più rilassati, i quali durano troppo e ben avrebbero potuto essere sfoltiti in sede di montaggio.
Un nuovo exploit che è solo l'ennesimo tassello nell'ennesimo mosaico Marvel. Nulla di memorabile ma tutto sommato ben condotto, per questo meglio di quanto visto ultimamente.