con: Rami Malek, Gwylin Lee, Lucy Boynton, Ben Hardy, Jospeh Mazzell, Aidan Gillan, Mike Myers, Allen Leech, Tom Hollander.
Biografico
Inghilterra, Usa 2018
Non è stato facile portare i Queen sul grande schermo. Non tanto per una presunta incompatibilità tra la loro musica ed il cinema: basti ricordare come l'album del rilancio, "A Kind of Magic" del 1986, altro non fosse che una OST del cult "Highlander- L'Ultimo Immortale". Il vero problema, che ha lasciato nel limbo produttivo questo "Bohemian Rhapsody" per quasi 10 anni, è stata l'ingerenza di Brian May e Roger Taylor, perennemente scontenti delle visioni di registi, sceneggiatori e finanche attori, che ha causato persino l'allontanamento di Sacha Baron Cohen dal progetto. Una visione, quella dei due Queen, che inizialmente non teneva neanche in conto la figura di Freddie Mercury, il quale sarebbe dovuto morire addirittura a metà film, per poi lasciare spazio all'elaborazione del lutto da parte della band.
Un progetto che, sulla scarta, sembra sbagliato più che altro. Certo è che sarebbe stato comunque più interessante del prodotto finito, il quale altro non è se non il più convenzionale dei biopic, che arriva finanche a piegare la realtà dei fatti per inseguire una drammaticità sin troppo insistita e a tratti persino codarda.
Ci sono davvero tutti i luoghi comuni del biopic "tipo" in questo exploit; la storia segue la rotta preimpostata da centinaia di altri progetti simili: le umili origini della band e del loro frontman, il conflitto tra Mercury e la famiglia, il successo, la scoperta dell'omosessualità, la caduta in disgrazia e il successivo ritorno alla ribalta con finalone lieto e trionfante. 15 anni di storia dei Queen ridotti all'osso e reimpastati alla bene e meglio per seguire un copione già scritto mille altre volte. Il genio di Mercury e May viene relegato alle prove generali delle varie hit, dove la band viene descritta come una famiglia vera e propria, sempre unita ed affiatata, senza sottolineare davvero l'apporto essenziale che ciascun membro ha dato al gruppo: si glissa prepotentemente persino sulla storica ed estenuante sessione di registrazione della stessa "Bohemian Rhapsody", ridatta, giusto ad un paio di gag, con la conseguenza che il genio musicale del gruppo e la loro incredibile capacità di mischiare generi musicali ed influenze non traspare mai.
Ancora peggio è il lavoro svolto sulla descrizione del Mercury-uomo, della persona fragile eppure energica che viveva al di fuori del palco. Sebbene Rami Malek somigli parecchio al vero Freddie Mercury, ne sappia replicare a dovere i movimenti e le espressioni facciali (benché abbia un fisico visibilmente più emaciato rispetto all'originale), il suo personaggio altro non è che una macchietta, uno showman dedito agli eccessi e ad una forma di autodistruzione nemmeno poi tanto sconvolgente.
Il che, per quello che fu il vero Freddie Mercury, è ai limiti del canzonatorio.
Non c'era una vera vena autodistruttiva in Mercury, quanto la costante ricerca di un piacere scaturito dalla mancanza di vero affetto. Il suo amore per Mary Austin e quello per il suo ultimo compagno, Jim Hutton (qui ritratto come un cameriere e figura salvifica) nel film fagocita le relazioni che ebbe, nella realtà, con altri partner, inseguiti non tanto per smania erotica, quanto per sconfiggere la solitudine che lo attanagliava, la quale viene data sempre per scontata.
Paradosso puro risiede nel fatto che, nonostante l'insistita voglia di sottolinearne gli eccessi, le famose e faraoniche feste del gruppo e i veri eccessi di Mercury non vengono neanche ritratti con la necessaria efficacia: davvero poca cosa è quella festicciola che ad un certo punto il Mercury di Singer e Malek indice in casa sua, dove i famosi freaks, le supermodelle, i giovani di bell'aspetto e le attrici porno restano timidi sullo sfondo.
Ad urtare e spiazzare, semmai, è la rappresentazione dell'omosessualità del protagonista vista quasi come una maledizione, con i passaggi più drammatici della sua vita e carriera enfatizzati dalle sue camminate nei gay club o nei bagni delle stazioni di servizio.
Come se non bastasse, la ricerca dell'effetto drammatico porta persino a riscrivere la storia del gruppo e delle dinamiche al suo interno. L'allontanamento di Freddie nel secondo atto per inseguire la carriera da solista, con conseguente arrabbiatura di May e Taylor, è il classico cliché utile a portare il protagonista a venire a patti con sé stesso; e sarebbe una trovata innocua, se non fosse che gli stessi May e Taylor, nella realtà, avevano prodotto un album da solisti ben prima di Mercury ("Starfleet Project" del 1983), che Mercury non ha mai litigato con la band e, anzi, nel 1984 erano tutti impegnati nel controverso "The Works Tour" e che, in sostanza, la performance al Live Aid di Bob Geldof del 1985 non è mai stata una reunion del gruppo.
Vien da chiedersi perché invece non si sia deciso di sottolineare la mancanza di ispirazione che tra il 1982 e il 1985 colpì band, con album come "The Works" e "Hot Space" che, nonostante le vendite al solito esorbitanti, erano sottotono rispetto al resto dei loro lavori; il rilancio effettivo del gruppo, da un punto di vista musicale, sarebbe arrivato nel 1986 con il già citato "A Kind of Magic" ed il successo del conseguente "Magical Mystery Tour" sarebbe stato un lieto fine decisamente più veritiero.
Più facile è stato invece usare la contrazione del HIV come pretesto drammatico per il terzo atto, la notizia della stessa come collante per far riunire la band, piegando nuovamente i fatti (la malattia fu diagnosticata a Mercury solo nel 1987) per creare un affetto drammatico artificioso e sterile.
Cosa resta dunque alla fine di "Bohemian Rhapsody"? Poco o nulla. Di certo vanno lodate le prove degli attori ed il loro lavoro di mimesi verso le controparti reali. Ed è impossibile non muoversi a tempo ogni volta che un pezzo dei Queen viene suonato durante il film, ma queste sono d'altronde ovvietà. Resta, quindi, un biopic convenzionale e malriuscito, dal quale è impossibile cogliere l'effettiva portata della grandezza di una rock band mai troppo lodata.
EXTRA
Piccolo e gustoso "inside joke" per Mike Myers che, vestendo i panni del boss della EMI Ray Foster, esclama come "Bohemian Rhapsody" non sia il tipo di canzone che fa "scuotere la testa degli adolescenti al volante della loro auto".
In "Wayne's World", che lo rese celebre, Myers e soci sono impegnati a scatenarsi sulle note del capolavoro di Mercury e soci mentre attraversano la città in auto.
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