di Tim Burton
con: Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp, Danny Huston, Jon Polito.
Biografico
Usa, Canada (2014)
Biografia d'autore e critica sociale non sono certo temi nuovi nel cinema di Tim Burton; esattamente 20 anni prima di "Big Eyes", l'autore omaggiava un altro suo idolo formativo in un biopic ben più affascinante ed affettuoso con il commovente "Ed Wood"; e la critica al costume è sempre stato uno dei temi portanti nel suo cinema, sino all'irriverente e catartico "Mars Attacks!" (1995); perchè questo "ritratto" della sfortunata vita di Margaret Keane non ha sicuramente la carica affettiva del primo, né quella iconoclasta del secondo e tantomeno quella forza visionaria che persino i peggiori lavori di Burton posseggono; eppure, al netto delle mancanze, "Big Eyes" resta comunque una pellicola riuscita e godibile.
Molte sono le intuizioni che permettono al film di convincere; prima tra tutte prendere due attori dallo stile opposto e complementare e farli cimentare in una gara dialettica lunga un intero film; da un lato, Amy Adams nei panni della protagonista mostra uno stile recitativo ancora più aciutto e fine rispetto al solito, calandosi nei panni della Keane con un trasporto totale, ma lasciando che siano i suoi occhi (appunto) a lasciar trasparire tutta la gamma di emozioni del personaggio, in una performance giustamente pluripremiata; dall'altro lato abbiamo invece un Christoph Waltz macchiettistico, che carica il suo personaggio sino al grottesco, ma senza mai sfociare nel caricaturale. La contrapposizione tra i due stili diviene paradigma dell'opposizione dei due personaggi, i quali a loro volta rappresentano l'opposizione non solo di due generi, uno dominante e l'altro passivo, ma anche di due stili di vita inconciliabili.
Margaret è un'artista totale, che vive la sua arte, la sente sin nel profondo e la difende anche quando questa le viene sottratta; un'arte, la sua, che nasce dalla sua condizione di oppressione: femmina in un mondo di maschi in quegli anni '50 "fantastici se si è uomini", nel quale la figura femminile viene relegata ai margini della società; e durante gli anni '60, durante la Rivoluzione Culturale e l'emancipazione femminile, Margaret Keane vive la parte più feconda e lucrativa della sua carriera come una reclusa, imprigionata in una torre d'avorio e costretta a lavorare per un uomo, con la sola consolazione dell'apprezzamento ricevuto per il suo tramite. L'arte della Keane è un'arte triste, nel quale lo specchio dell'anima diviene ritratto della tristezza più intima, quella che solo una donna, al pari di un bambino, poteva sperimentare in quanto emarginata da tutto e da tutti; e non stupisce, così, che proprio il Re dei Freaks Burton si invaghì di quei corpi grotteschi eppure commoventi sin da bambino.
Walter, d'altro canto, è la quint'essenza del self-made man americano borghese: un uomo che basa la sua fortuna sullo sfruttamento altrui e sulla pubblicità; non solo Walter è totalmente privo di talento, ma arriva a vendere quasi spontaneamente i quadri della moglie come i suoi e a sfruttarla anche una volta che la loro relazione si esaurisce. Walter è un truffatore, un fanfarone, il paradigma totale e definitivo di tutto ciò che Burton disprezza(va) nella middle-class americana e che qui trova forma totale e definitiva: un millantatore violento ed opportunista.
Laddove il flm non convince è nella messa in scena, troppo piatta per appasionare; non vi è mai uno slancio creativo nella visione di Burton: non nella rievocazione del passaggio dell'Arte Moderna ad arte da consumo, non nella costruzione della storia e nemmeno nelle visioni che (molto sporadicamente) tormentano il personaggio di Margaret. Laddove 20 anni prima con "Ed Wood" l'auotre riusciva a fondere alla perfezione il proprio omaggio sentito con la vita del regista e sinanche con lo stile sgangherato e felice delle sue opere, in "Big Eyes" l'ex enfant prodigé si limita a dirigere gli attori e a colorare la fotografia come un quadro della Keane, usando una palette gioiosa ed espressiva, ma appiattendo le immagini su di un immaginario semplicemente inesistente. Ed è un peccato visto la caratura del lavoro della Keane e della forte influenza che ha avuto sull'autore.
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