Hail, Caesar!
di Joel e Ethan Coen.
con: Josh Brolin, George Clooney, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Alen Ehrenrheich, Veronica Osorio, Frances McDormand, Channing Tatum, Jonah Hill.
Usa, Inghilterra, Giappone 2016
C'era una volta la Golden Age degli studios di Hollywood; tra produzioni faraoniche, divi viziati, talento inesistente, teatri di posa ciclopici e una ineliminabile mancanza di sostanza, il cinema americano dei kolossal e dell'intrattenimento puro e semplice era il frutto di un mondo strambo, a volte genuinamente folle. E chi meglio dei fratelli Coen poteva dar vita su schermo in modo appropriato a quel caleidoscopio colorato e marcio, proprio loro che già con "Barton Fink" (1991) avevano inferto un affondo al vetriolo a quel mondo, del quale "Ave, Cesare!" è di fatto una perfetta rievocazione, filtrata attraverso l'occhio grottesco e disincatato del duo, che ne fa a pezzi i miti e ne cannibalizza i resti per mostrarne in modo iperbolico la genuina idiozia.
1951, Eddie Mannix (Josh Brolin) è il direttore di produzione della Capitol Pictures, major impegnata nella produzione del kolossal "Ave, Cesare!". In 27 ore, l'indaffaratissimo dirigente dovrà fronteggiare la scomparsa del divo Baird Whitlock (George Clooney), l'inattesa gravidanza della cafonissima diva DeeAnna Moran (Scarlett Johannsonn), l'insistenza delle sorelle Thacker (Tilda Swinton), reporter scandalistiche in cerca di notizie e i problemi causati da Hobie Doyle (Alen Ehrenrheich), cowboy malamente promosso sul set di una screwball comedy.
Lo sguardo feroce dei Coen è sempre presente, ma qui si fa meno acido, più votato al divertimento. La cattiveria che contraddistingueva capolavori del calibro di "Fargo" (1996) e "A Proposito di Davis" (2013) è sempre presente, ma celata sotto uno strato gioviale, quasi solare. L'intento, qui, è di ridicolizzare il passato e l'istituzione hollywoodiana mediante un registro più leggero, da commedia brillante virata verso il grottesco. I personaggi, così, divengono quasi tutti dei "magnifici cretini", dei pupazzi da deridere, i cui difetti, pure atroci come da tradizione, sono da mettere alla berlina con un sorriso stavolta sguaiato, che non cela alcuna nota dolente. Il mordente non manca, ma si fa ora più calmo, lasciando che siano le azioni dei personaggi a parlare piuttosto che il contesto il cui si muovono.
Personaggi dei quali nessuno, o quasi, si salva, se non quel Mannix che tenta disperatamente di avere una fede in un mondo di plastica. La sua ricerca ossessiva della grazia divina resta inascoltata, persa in un confessionale che diviene rituale quotidiano per aggiustare una bussola mentale prossima alla distruzione, o arenata in cima ad un golgota scenografico vuoto, verso una catarsi inesistente.
Il resto del cast è invece formato da un gruppo di macchiette, volutamente bidimensionali, costruite sulla falsariga dell'immagine, pubblica e privata, di veri divi e divetti del passato ed ingrandita sino al grottesco, i quali si muovono in un mondo sul cui sfondo si agitano i fantasmi del comunismo e della guerra nucleare, quelle paranoie che di lì a poco invaderanno anche gli schermi.
Baird Whtilock, l'aitante superdivo tonto è un Kirk Douglas che scopre le contraddizioni dello studio system grazie ad uno sgangherato rapimento orchestrato da una versione iperbolica dei "10 di Hollywood", folli comunistoidi totalmente persi nelle loro elucubrazioni socio-economiche senza capo né coda. Hobie Doyle è un Ronald Reagan/John Wayne totalmente incapace di pronunciare parola, un clown semi-ritardato che, nel paradosso puro, finisce per salvare la situazione con una serie di intuizioni talmente geniali da essere totalmente folli. Le sorelle Thacker sono una versione gonfiata di Hedda Hopper e delle sorelle Friedman, fusesi per formare uno squalo affamato di vite umane da distruggere o elevare allo stato divino con ossessiva voracità. Il Burt Gurney di Channing Tatum è un Gene Kelly le cui simpatie sinistrorse sono tramutate in militanza irredenta verso il comunismo. Il regista Lurence Laurentz di Fienness è un Vincent Minnelli in preda ad una crisi di nervi.
Tutti i personaggi si muovono in un mondo fatto di scenografie di cartapesta o di aridi vicoli tra i capannoni: un mondo vuoto.
Ai colori sgargianti e alle musiche allegre dei film nel film, i Coen giustappongono un mondo svuotato di significato, dove nulla ha un peso specifico. Non c'è arte nel cinema, non c'è passione, solo la creazione di un prodotto da dare in pasto al pubblico per "nutrirne i sogni" un tanto al chilo. In tale contesto, Mannix è un operaio non dissimile da quelli difesi dagli sceneggiatori comunisti, l'unico uomo dotato di senno, carisma e spina dorsale in un circo fuori controllo, il cui apporto è necessario per la riuscita. Se la storia dei personaggi secondari è una commedia grottesca tout court, quella di Mannix viene costruita e ritratta come un noir, con un misfatto da sbrogliare in un'atmosfera che si fa cupa, dai colori scuri e inquadrata in immagini forti ed oblique, che Roger Deakins si diverte a ricreare usando luci e palette di quella stessa epoca che i registi deridono.
Nel suo mondo, si diceva, non c'è fede, non c'è un Dio o un'Idea primigenea a reggere il tutto, se non quella che si sforza di rincorrere. Il tema della fede nei "sandaloni" viene messa alla berlina in una delle sequenze più divertenti: la riunione dei ministri che, chiamati a pronunciarsi sul ritratto del Cristo in "Ave, Cesare!" finiscono per disquisire in tutt'altro. Non esiste il sacro nella vita di Mannix e soci, così come quelle storie tratte dai Testi Sacri venivano svuotate di ogni valenza non prettamente spettacolare nelle produzione dell'epoca, come Pasolini lamentava dopo la visione, tutt'oggi insostenibile, de "Il Re dei Re" (1961). Non per nulla, nel finale Whitlock non riesce a completare il suo monologo sulla grandezza della fede, a causa dello smarrimento dovuto al "trattamento" ricevuto da Mannix dopo la sua scoperta di un mondo fatto di idee e valori.
Tanto che questi personaggi fasulli, creati ad hoc dagli studios e venduti tramite gli articoli sui giornalacci, finiscono per divenire un'umanità altra, che riconosce e apprezza solo altri "simulacri", come nella storia d'amore tra Doyle e Carlota Valdez o, ancora più inquietante, tra la Moran e il Jospeh Silverman di Jonah Hill, quella "persona" creata appositamente per pilotare i processi in cui erano invischiati i divi: un essere privo di identità, quindi perfetto attore e partner ideale per una diva la cui immagine di beltà è solo un panno per coprire un'identità di tutt'altra indole. Umanità "altra" che ricorda lo sguardo di un altro grande autore confrontatosi di recente con la decadenza hollywoodiana: il Cronenberg di "Maps to the Stars" (2014).
Unica eccezione, oltre Mannix, è il "divo comunista" Burt Gurney, che nel finale assume un'identità vera e forte di agente sovietico, partendo per il "mondo reale".
Se i personaggi sono vuoti a perdere che sguazzano nella loro idiozia, non meno cattiva è la descrizione dei "prodotti" che quel mondo ha sfornato: il kolossal "Ave, Cesare!" è un "Ben-Hur" vuoto e ridicolo, il musical interpretato da Gurney è un eruzione di sottotesti licenziosi e omoerotici, il western di Doyle è un'accozzaglia di capitomboli e stunt senza continuità, mentre la commedia brillante di Laurenz un perfetto esempio di cinema dei "telefoni bianchi", dai dialoghi talmente snob da essere incomprensibili.
La critica dei Coen si fa così divertente, oltre che, come al solita, ferma e intelligente. "Ave, Cesare!" non è certo annoverabile tra i loro film migliori, mancando di veri colpi di genio oltre quello, irresistibile, della creazione di un'estetica nostalgica per abbellire una critica forte e metodica, ma resta pur sempre un pamphlet divertente e tutto sommato corrosivo.
EXTRA
Diversi i punti in comune, non si sa fino a che punto voluti, tra "Ave, Cesare!" e il capolavoro di Robert Altman "I Protagonisti" (1992). Entrambi sono ritratti al vetriolo di una Hollywood vuota e folle, con protagonista un dirigente invischiato in una storia "hard boiled" portata in scena secondo i crismi del cinema noir classico, la cui figura è ispirata al vero Eddie Mannix, dirigente e "problem solver" della MGM.
E proprio come Altman, anche i Coen infarciscono il film di comparsate illustri, date qui, nel più puro stile cinefilo del duo, da grandi caratteristi del cinema americano: oltre Jonah Hill e Frances McDormand, che compaiono entrambi in un'unica scena pur essendo accreditati sul poster, si possono contare Robert Picardo nei panni del rabbino, Allison Pill in quelli della moglie di Mannix, il premio Oscar Fisher Stevens nei panni del capo degli sceneggiatori comunisti e Wayne Knight come la comparsa che avvelena Whitlock; Clancy Brown e Christophe Lambert, che tornano a recitare nello stesso film anche se non sono mai nella medesima scena, dopo il cult "Highlander- L'Ultimo Immortale" (1986), compaiono rispettivamente nei panni del centurione Gracco e del regista Arne Seslum. Difficilissima da cogliere è infine l'apparizione "fantasma" di Dolph Lundgern, che interpreta la silouette dell'ufficiale sovietico.
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