di Gabriele Mainetti.
con: Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei, Francesco Formichetti, Antonia Truppo.
Italia 2015
Il "cinema" italiano contemporaneo è davvero una strana bestia, totalmente arroccato in un'ignoranza spocchiosa di tutto e di tutti, dimentico delle sue origini e schizzinoso verso forme di contaminazione esterne di ogni sorta. Un cinema, in sostanza, fatto da beceri e pensato per idioti in grado di esaltarsi solo di fronte all'ennesimo comico televisivo con la faccia d'asino che raglia battutacce da quarta elementare.
In tutto questo, è davvero squallido notare come di tutta la gloriosa tradizione filmica nostrana, non sia sopravvissuto nulla; ancora più deprimente è il realizzare come tutta la cultura italiana, sia essa letteraria, pittorica o musicale, compaia solo sporadicamente nelle produzioni tricolori, per di più in modo timido e scolastico, come nell'impresentabile "Il Giovane Favoloso" (2014); definitivamente scandalosa è l'assenza di quella cultura popolare, fatta di musica leggera e nostalgie televisive, che tanto avrebbe da offrire ad una filmografia magra e priva di ispirazione.
Cultura popolare che si affaccia solo di rado nelle "grosse" produzioni targate Medusa o RAI e che quando lo fa è ovviamente filtrata mediante l'omaggio cialtronesco al cinema di Quentin Tarantino, per la mancanza di coraggio e di stile dei filmakers che, giovani o presunti tali, decidono di guardare al glorioso passato pop della nazione. Quel passato fatto dalle scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill, delle hit di cantanti del calibro di Patty Pravo e Loredana Bertè e della glorificazione dell'Anime, di quell'universo colorato e ameno fatto di robottoni, eroi invincibili ed avversari demoniaci che invece sembra più presente nello scarno circuito del cinema indipendente, l'unico dove, una tantum, qualche giovane cineasta ha il coraggio di dare forma compiuta e a suo modo originale al pop. Non per nulla, l'unico titolo in grado di imporsi all'attenzione dei moviegorers, sotto questo punto di vista, è stato quel misconosciuto (in Italia) e poco apprezzato "Adam Chaplin" (2011), opera prima dei fratelli De Santi, girata con pochi mezzi e molta passione, che univa l'omaggio all'horror splatter degli anni '80 al mito di "Hokuto no Ken".
Proprio per questo vedere nelle sale un film come "Lo Chiamavano Jeeg Robot" è spiazzante: una pellicola girata con un buon budget, un cast di attori di primo piano e distribuita su suolo nazionale che non prende la cultura popolare come semplice vezzo estetico per imbastire una storia seria o pretenziosa, ma che affonda totalmente nel genere più puro, senza disdegnarlo, con l'intento di dare nuova forma alle influenze senza rifarsi in modo diretto al registro di qualche altro filmmaker (nonostante qualche derivatività) ed anzi cercando di coniarne uno nuovo.
Non per nulla, Gabriele Mainetti fa parte di quella generazione di giovani adulti cresciuti tra gli anni '80 e '90 a pane e Go Nagai, pasta e poliziotteschi e che, per questo, può dire davvero di amare il pop italiano, al punto di farne il punto di riferimento di tutta la sua carriera; la quale, dopo i corti "Basette", omaggio al "Lupin III" di Monkey Punch e "Tiger Boy", che invece si rifà a "Tiger Mask", arriva finalmente al lungometraggio con il più pop dei robottoni nagaiani, quel "Jeeg Robot d'Acciaio" che non aveva la violenza di "Mazinga", né il tono cupo del "Mobile Suit Gundam" di Tomino e che per questo ben si adattava al processo di ri-strutturazione. Ed il risultato è un film imperfetto, ma magnificamente riuscito.
A colpire è innanzitutto il contesto nel quale le vicende dello strampalato eroe si svolgono: una Tor Bella Monaca ultraviolenta, infestata da rapinatori incalliti e volitivi che sembra uscita da un episodio di "Romanzo Criminale"; la violenza fa sovente capolino in scena ed è urlata, grafica e talvolta rivoltante, proprio come nel poliziottesco d'annata.
La stessa definizione dei caratteri dell'eroe e del villain si poggia su due figure che il dramma criminale non disdegna. Enzo "Jeeg" Ceccotti (Santamaria) è un'anima persa, un misantropo rapinatore di quart'ordine che usa i poteri solo per poter sopravvivere. Non un "cattivo", ma un semplice disperato, solo e lontano da tutto e da tutti, la cui sociopatia affonda le radici nel dramma della perdita; Fabio "Zingaro" Cannizzaro (Marinelli) è un figlio di quell'Italia post-berlusconiana che ha eroso ogni forma di dignità: un criminaletto de borgata innamorato della propria immagine e alla ricerca del "colpo del secolo" per allontanarsi dalla periferia. Ognuno dei due è caratterizzato con dei tic che ne definisco la personalità in modo certosino: l'eroe mangia solo yogurt e divora DVD porno, il villain è ossessionato dalla ripresa video (omaggio troppo tirato al Joker di Heath Ledger) e si diverte a cantare un repertorio di musica leggera anni '70. E già queste "piccole accortezze" garantirebbero a "Lo Chiamavano Jeeg Robot" di svettare su qualsiasi altro presunto film di genere che si sia visto negli ultimi 20 anni.
Tolta di mezzo l'ovvia trama (sociopatico scopre la purezza del Bene mediante il sacrificio di una persona amata), comunque condotta a dovere e senza sbavature, a stupire è la vitalità del tocco di Mainetti: effetti speciali e sequenze d'azione, pur non facendo gridare al miracolo, sono usati e condotte in maniera efficacissima, senza mai scadere nella caricatura. Il tono serioso, pur inframezzato da segmenti umoristici, non scade mai nel ridicolo involontario. Sono almeno due le sequenze che gli permettono di entrare di forza nell'immaginario collettivo: lo scontro finale durante il derby Roma-Lazio e il massacro a tempo di musica del clan dei Camorristi. E la direzione degli attori è semplicemente strepitosa: Claudio Santamaria dimostra una versatilità inedita per un attore italiano, in una performance laconica che cela tutta l'immensa gamma delle emozioni del personaggio, mentre Marinelli, con il suo folle "Joker de'noartri", buca lo schermo con il suo sguardo assatanato, perfetto erede di quello del miglior George Eastman.
E a discapito del debito di ispirazione troppo marcato verso Ledger, l'intento di ricreare il pop su schermo si realizza in pieno: il poliziottesco fa da base, il film supereroistico da scheletro e gli anime da colore, fondendosi in un corpo nuovo, simile ai modelli, eppure dotato di una sua autonomia. In questo, "Lo Chiamavano Jeeg Robot" si dimostra intimamente "tarantiniano": non vuole omaggiare Tarantino, ma il lavoro di Mainetti è simile a quello del regista americano, fatto di rielaborazione di modelli dati; la differenza sostanziale sta nel fatto che Mainetti non cita, ma omaggia, riuscendosi a discostare definitivamente da ogni ispirazione.
Laddove inciampa è nella scelta di un ritmo talvolta troppo rilassato, inutilmente lento, e nella scelta di una colonna sonora originale scarna, che purtroppo priva alcune scene del dovuto mordente. Difetti tutto sommato non mortali.
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