di Steven Spielberg.
con; Richard Dreyfuss, François Truffaut, Teri Garr, Melinda Dillon, Bob Balaban, Cary Guffey.
Fantascienza
Usa 1977
Il monumentale successo de "Lo Squalo" (1975) impresse definitivamente il nome di Steven Spielberg nel pantheon di Hollywood. Era nata una stella, un regista in grado di confezionare pellicole capaci di polverizzare record al box office e che al contempo riuscivano a soddisfare persino la critica. Spielberg potè quindi avere carta bianca per il suo prossimo progetto, il quale era il più ambizioso e personale avesse affrontato sino ad allora: un film di fantascienza con al centro un contatto tra l'essere umano ed una civiltà aliena, dove quest'ultima, praticamente per la prima volta al cinema, non aveva intenzioni ostili.
Ottenuto un grosso budget, la collaborazione di Douglas Trumbull per i complicati e perfetti effetti speciali, quella di Paul Schrader alla sceneggiatura (che però dovette ritirare il suo nome a causa delle numerose riscritture effettuate dal regista) e di ben cinque direttori della fotografia (tra il quali il magico duo dell'epoca Laslo Kovacs e Vilmos Zsigmond), Spielberg crea un film unico, a tratti perfettamente poetico, ma anche frammentario e talvolta contraddittorio.
"Incontri Ravvicinati" è la storia di un contatto extraterrestre declinata sotto due punti di vista; da un lato c'è Lacombe (il grande François Truffaut), lo scienziato, ossia l'approccio serio e razionale, il quale assiste con occhio curioso a fenomeni incredibili, come il riapparire di veicoli scomparsi da decenni il luoghi improbabili, quale il Deserto dei Gobi o quello messicano; dall'altro c'è Roy (Richard Dreyfuss), l'uomo comune, il membro della working class americana dalla quale lo stesso Spielberg discende, la cui vita viene sconvolta, rivoltata come un calzino dall'arrivo degli UFO.
Il loro punto di vista rappresenta l'ambivalenza con la quale ci si approccia ad un mistero più grande dell'Uomo: la curiosità intellettiva, l'ossessione viscerale; il Mistero domina entrambi, svelandosi un pò alla volta nel corso della pellicola, tramite indizi sempre più curiosi.
L'idea di far comunicare gli alieni mediante la musica, per quanto semplicistica sul piano della verosomiglianza, appare vincente su quella stilistica; le celebri cinque note del tema (tra le quali vengono inserite anche quelle iniziali de "Lo Squalo") divengono così sinonimo di incognita e meraviglia, di grandezza e stupore. Stupore dinanzi al quale Spielberg si inginocchia come un bambino: il suo sguardo è umano, profondo per quanto naif; da qui la scelta azzeccatissima di regalare il ruolo dello scienziato a Truffaut, colui che più di ogni altro riusciva a trattare con leggerezza tematiche umane senza mai scadere nel superficiale.
Quello di Roy è invece un percorso più arzigogolato; vive in un nucleo familiare per la prima dipinto come ricettacolo di incomprensioni e brutture; Roy è un vero e proprio prigioniero di un luogo dove la sua curiosità ed il suo entusiasmo non trovano apprezzamento. Nel ritrarre il distacco progressivo e il conflitto tra lui e la moglie, Spielberg si rifà apertamente ai dettami della Nouvelle Vague, seguendo con il suo sguardo le peripezie ed i battibecchi dei personaggi nello spazio della loro abitazione, che diviene luogo filmico claustrofobico.
Uno sguardo che si fa via via più marcato: il distaccamento dalla famiglia e l'avvicinamento al mistero portano Roy ai limiti della pazzia, ad una forma ossessivo-convulsiva di ricerca della visione (la Devil Tower, luogo dell'incontro) che gli aliena definitivamente le simpatie dei congiunti. L'istituzione familiare finisce per la prima ed unica volta nella filmografia del regista per esplodere al fine di liberare l'uomo comune, ora libero di perseguire il suo scopo. Torna ancora, grazie ai riferimenti stilistico-estetici, l'importanza della figura di Truffaut, ma Spielberg non riesce ad essere all'altezza del modello: il percorso di Roy è troppo artefatto, troppo sopra le righe per essere verosimile, dimostrazione dell'incapacità dell'autore di raccontare (all'epoca) storie troppo reali.
Il vero valore del film risiede però nel terzo atto, dove Spielberg descrive con efficacia l'incontro con la civiltà aliena. L'uso della musica e dei suoni, la coordinazione tra set ed effetti speciali e le scelte stilistiche sono semplicemente perfette. L'emozione sgorga sincera quando lo sguardo di Truffaut si posa speranzoso su quelle luci, quando la musica fa ballare quei fantomatici ed affascinanti dischi volanti e quando i visitatori si mostrano allo spettatore.
Celati per tutta la durata del film, proprio come lo squalo del film precedente, gli alieni di "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo" inondano lo schermo nel finale con le loro forme umanoidi vagamente inquietanti, eppure incredibilmente espressive; gli effetti speciali del grande Carlo Rambaldi riescono a dare vita con poco a creature vive e tangibili, visitatori totalmente alieni nei tratti somatici, ma decisamente umani nelle espressioni.
Effetti speciali che rubano la scena al resto per creare immagini indelebilmente poetiche ed affascinanti, giustamente entrate nell'immaginario collettivo.
Gli alieni di Spielberg sono una razza pacifica, una sorta di scienziati dello spazio incuriositi dai terrestri così come questi lo sono dai fenomeni ufologici; alieni giunti sulla Terra per studiare l'uomo, per comprenderlo nel suo essere più inconscio; tanto che alla fine il "prescelto" è proprio quel Roy incarnazione dell'umanità più comune.
Una visione dell'ignoto, quella di Spielberg, originale ed edificante, che però cade in contraddizione con quanto mostrato nel secondo atto; perchè costruire la scena del rapimento del piccolo Barry come un vero e proprio horror? Queste forme di vita non sono forse esseri senzienti che perseguono scopi pacifici?
Contraddizione che si spiega, forse, se si tiene conto dell'influenza subita dall'autore, il quale, sulla scorta della visione dei classici del cinema europeo, ha deciso di fondere "generi" e registri all'interno di unica narrazione; senza tuttavia riuscire a controllarne il contenuto, che finisce così per contraddirsi.
Al punto che "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo" finisce per essere un'esperienza frammentaria e convulsa: a tratti poetica e rigorosa, a tratti confusionaria ai limiti del ridicolo. Un "pastiche" sempre emozionante, che cerca sempre di dare al pubblico ciò che vuole: meraviglia, risate, spaventi ed incanto; pagando però il prezzo della credibilità.
EXTRA
Tra gli epiteti più famosi affibbiati a Spielberg c'è il celebre "eterno Peter Pan", dato a causa della sua capacità di relazionarsi con attori bambini. Trend inaugurato proprio con "Incontri Ravvicinati", dove il piccolo Cary Guffey, l'interprete di Barry che all'epoca aveva solo cinque anni, divenne il suo attore preferito; la sintonia tra i due era perfetta al punto di riuscire ad avere la reazione desiderata dal piccolo interprete già al primo ciak.
Guffey continuò a recitare sino al 1985, per poi ritirarsi a vita privata. Subito dopo aver collaborato con Spielberg, interpretò altri due film a tema fantascientifico, ricoprendo questa volta il ruolo dell'alieno: era il piccolo H725 negli sgangherati (ma divertenti) "Uno Sceriffo Extraterrestre... poco Extra e molto Terrestre" (1979) e "Chissà perché capitano tutte a me" (1980).
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