giovedì 14 aprile 2016

Mary

di Abel Ferrara.

con: Matthew Modine, Forest Whitaker, Juliette Binoche, Heather Graham, Marion Cotillard, Stefania Rocca, Marco Leonardi, Elio Germano, Luca Lionello.

Usa, Italia, Francia 2005

















La ritrovata ispirazione de "Il Nostro Natale" (2001) consente a Ferrara di riottenere il plauso della critica, ma come al solito i produttori americani fecero spallucce; il suo cinema, così dirompente, scandaloso, forte e profondo mal si coniugava (e si coniuga tutt'oggi) con il sistema produttivo di serie A, ma anche, per paradosso puro, con il circuito indipendente. Per il grande autore non resta così che cercare fondi in Europa, dove invece veniva e viene tutt'oggi considerato come uno dei più importanti autori americani e mondiali.
Per il suo film successivo, Ferrara rispolvera un soggetto di circa dieci anni prima, "Go-Go Tales", che inizialmente avrebbe dovuto avere la forma di un telefilm, nelle parole dell'autore una specie di "Cin-Cin con le tette". Ad interessarsi al progetto è, incredibilmente, un piccolo gruppo di aspiranti produttori italiani, che portano l'autore a Roma. Malauguratamente, il progetto entrerà in un limbo produttivo sino al 2007 a causa dell'inconsistenza della produzione: i finanziatori, vera e propria "Armata Brancaleone" del mondo della celluloide, non solo non riuscirono a trovare i fondi necessari, ma si dimostrarono persino totalmente incapaci di gestire le più basiche forme di pre-produzione necessaria.
Amareggiato, Ferrara riusce tuttavia a trovare in Roberto De Nigris una figura di riferimento nel Bel Paese, il quale si interessa ad un altro progetto dell'autore, un film più ambizioso e profondo: "Mary Magdalene", una biografia della Maddalena che si doveva intrecciare con l'esistenza di un giovane regista chiamato a dirigerne un film, che nelle intenzioni originali doveva essere interpretato da Monica Bellucci e Vincent Gallo. Tuttavia, i fondi necessari per un grande film in costume erano oltre la portata di De Nigris e soci e Ferrara deve "riscalare" il film. Il risultato, "Mary", è la sua opera più complessa e radicale, un saggio dirompente ed ipnotico sulle ragioni della Fede e sulla sua incontestabile necessità.






In una complessità narrativa e metanarrativa inusitata nel suo cinema (se si eccettuano pochissime eccezioni), Ferrara sviluppa il discorso su tre piani; il primo, più prominente, è quello intimista: tre personaggi compiono un percorso di realizzazione sulla Fede; l'attrice Marie Palesi (Juliette Binoche), reduce dalle riprese di "This is my Blood", kolossal sulla vita di Cristo, attua un transfert definitivo sul personaggio di Maria Maddalena e, al pari della protagonista di "Persona" (1966), scopre un vuoto interiore che la porta a raggiungere una forma di illuminazione dal e verso il Divino. Il regista Tony Childress (Matthew Modine), autore del film ed interprete di Gesù, continua volontariamente a sguazzare nel dubbio e in una vita vuota, priva di vere motivazioni, salvo realizzare, mediante la visione della sua stessa opera, la sua situazione. Ted Younger (un intenso, straordinario Forest Whitaker), conduttore televisivo la cui trasmissione si sta occupando della vita e dei misteri del Figlio di Dio, si avvicina alla storia di Childress e della Palesi per scoprire la Fede.
Tre personaggi che, nella tradizione dell'autore, sono privi della Grazia; tre persone che vengono redente, forse, in qualche modo cambiate dalla vicinanza con l'inspiegabile, con l'insondabile, con quel "silenzio di Dio" che li turba, li affascina; un percorso, il loro, non necessariamente positivo: Marie, persa in Gerusalemme, pur forte di una fede insindacabile, non trova una catarsi definitiva: il suo stato, benché di Grazia, è lontano dalla pace, in quanto vessa in un luogo martoriato dalla violenza. Childress, pur perso nelle lacrime della realizzazione, scopre una fede del tutto circostanziale. E' il solo Younger a giungere ad una definizione della sua esistenza: il dolore fisico, inflitto durante un attacco di un gruppo di contestatori, quello emotivo, dovuto alla paura per la perdita del figlio neonato, lo portano a scoprire il mistero divino, razionalizzato mediante la sua trasmissione, per poi realizzare le sue mancanze, il suo egoismo, il suo status di peccatore.





Secondo piano narrativo, il più semplice e diretto, è quello del film nel film: "This is My Blood" è una ricerca (o per meglio dire la rappresentazione di una ricerca) del divino da parte di un autore. In esso ritroviamo i frammenti di quell'opera originariamente concepita e mai compiuta, che diviene ora dimensione allegorica e veritiera; la vita del Cristo e le sue opere rivivono in Maria Maddalena, nelle sue parole, riprese dai Vangeli Apocrifi; l'insegnamento è lì, a portata di visione, eppure così lontano, difficile da acquisire; la rappresentazione del sacro è mezzo catartico dirompente, rivoluzionario, quasi scandaloso, eppure estremamente fallace; facile rivedere, nella calma della messa in scena, nei dialoghi volutamente didascalici e nel tono placido e sacrale, una critica a quel "La Passione di Cristo" (2004) che poco tempo prima aveva sbancato i botteghini trasformando la figura di Gesù in carne da macello; ma Ferrara va oltre: purga il messaggio divino di ogni orpello, ogni abbellimento di sorta, per presentarlo in maniera diretta allo spettatore, come il Pasolini de "Il Vangelo Secondo Matteo" (1964).






Terzo piano, il più metalinguistico, è il discorso che Ferrara intavola direttamente con lo spettatore. Il mistero della fede, il mistero sulla vita del Cristo, sulla sua relazione con gli apostoli e la figura della Maddalena sono lasciati tali; non viene presa posizione a riguardo, anzi gli inserti documentaristici anzicché chiarificarne gli aspetti rendono il tutto più complesso. La via della Fede e le figure che la compongono sono troppo grandi per essere rappresentati adeguatamente: l'unica forma che possono assumere è quella del film nel film, della scarna semplificazione. A Ferrara interessa invece mostrare il contrasto tra il messaggio evangelico, tra il percorso di redenzione dei suoi personaggi e la violenza che insanguina le strade di Gerusalemme come di New York; una violenza cieca e sorda, che non si pone domande sul contenuto della fede e che anzi accetta come un diktat al solo scopo di ferire e distruggere tutto ciò che non gli si conforma; i contestatori che picchettano il cinema al pari dei soldati israeliti sono le controparti dei Romani e del Sinedrio che uccidono la Parola di Dio in modo ottuso.







"Mary" finisce per rappresentare, così, l'opera più dubbiosa di Ferrara, ma anche la più sensibile; una sorta di rito di purificazione da ogni preconcetto, ma anche da ogni certezza; un atto di fede su celluloide che porta ad una riflessione urgente e feconda; un'opera piccola, microscopica, vergognosamente inosservata, eppure ineludibilmente titanica nei suoi contenuti.





EXTRA

Lo stress, il rapporto di odio verso il sistema hollywoodiano, la passione smodata per l'Italia, le incazzature, i voltafaccia dei produttori e degli scalcinati businnessmen che si sono affiancati a Ferrara sono stati immortalati in un sorprendente documentario: "Odyssey in Rome" di Alex Grazioli, da qualche tempo disponibile in Italia nell'archivio streaming di Netflix.






La fatica disumana e le umiliazioni subite prima, durante e dopo la lavorazione di "Mary" hanno fortunatamente ripagato il loro autore: presentato al Festival di Venezia nel 2005, il film è stato premiato con il Gran Premio della Giuria, tutt'oggi il più importante e prestigioso riconoscimento ottenuto (giustamente) da Abel Ferrara.


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