mercoledì 7 settembre 2016

4:44 L'Ultimo Giorno sulla Terra

4:44 Last Day on Earth

di Abel Ferrara.

con: Willem Dafoe, Shanyn Leigh, Natasha Lyonne, Anita Pallenberg, Paul Hipp, Paz De La Huerta.

Usa, Francia, Svizzera 2011
















L'endemica, incontrovertibile e forse sofferta mancanza di capitali ha segnato l'esistenza di buona parte della carriera di Abel Ferrara, fino a modificarne lo stile. Quando persino il milione di dollari de "Il Cattivo Tenente" (1992) diventa troppo, non si può che abituarsi a lavorare di sottrazione, sia nella messa in scena che, immancabilmente, nella scelta delle storie da raccontare. Tanto che "4:44" può essere visto come un punto d'arrivo, doloroso ma fortunatamente non definitivo: un film che definire minimale sarebbe eufemistico, un kammerspiel con due attori principali (l'amico Willem Dafoe e la compagna Shanyn Leigh) e nove tra secondari e comparse, girato in due interni ed una strada, con giusto una texture verde per dar vita alla visione della fine del mondo del titolo. Niente più cinema guerriglia, quindi, niente più scorribande nei bassifondi di Manhattan, niente storie d'epoca o sguardi al passato remoto. "4:44" è un piccolissimo countdown personale, perennemente sospeso tra l'intimismo e il simbolico, che per forza di cose non riesce ad essere incisivo.




L'appartamento di Cisco e Skye è il centro nevralgico di un mondo con le ore contate. Ferrara scomoda il Dalai Lama e Al Gore, riprende il tema ecologista per dar corpo all'autodistruzione umana, simboleggiata con Willem Dafoe intento a tagliare un albero, ma il suo simbolismo è scialbo e talvolta vacuo. Non c'è davvero voglia di condannare nessuno, né di riflettere su nulla: la Fine è un dato di fatto fatto assodato, meglio rivolgersi, dunque,  ai personaggi. O per meglio dire al personaggio: Skye resta sempre confinata sullo sfondo, quasi un orpello al personaggio di Cisco. Il quale ha un passato da tossicomane e un matrimonio fallito alle spalle; di certo non uno dei "dannati" del cinema di Ferrara, né un uomo alla ricerca di una forma di redenzione. Cisco vaga, mentalmente e fisicamente, tra quel che resta del mondo e delle persone, assiste impotente al lento dipanarsi degli eventi. Mentre Skye perora il suo io creativo in contrasto con l'impellente estinzione, dando vita ad un uroboro, simbolo della vita perenne rifiutata dalla cultura occidentale, Cisco ciondola, ama, si arrabbia, torna al demone della droga e compie un ultima chiaccherata con il fratello. Ed è qui il primo limite del lavoro di Ferrara: l'insipienza.






La riflessione viene oscurata dal quotidiano, lo sguardo dell'autore si fa meramente contemplativo dei piccoli gesti dei personaggi. Non c'è alcuna volontà di riflettere e far riflettere, nemmeno quella più basica e scontata, ossia la volontà di far capire al pubblico quanto di questa visione scialba sia effettivamente voluto. La fine del mondo diviene quasi un preteso per dar vita a siparietti scontati e privi di significato, che non trovano, appunto, un valore nemmeno nella totale assenza dello stesso e si animano come giustapposizioni di frasi e riflessioni altrui montate su schermo. Laddove questo lavoro accumulativo funzionava in "Mary" (2005), riuscendo davvero a comunicare l'idea del suo autore in assenza di mezzi migliori, qui si impantana nella patologica assenza di significato.
Di conseguenza, per gli scarni 70 minuti di durata non ci si può non domandare cosa Ferrara voglia davvero comunicare: lo stato d'animo di Cisco e Skye è basilare, la paura affiora solo negli ultimissimi istanti, mentre il mondo che li circonda viene lasciato anch'esso sullo sfondo e inevitabilmente filtrato attraverso la tecnologia.
Quel coacervo di schermi televisivi e informatici è la finestra su ciò che accade, sulle relazioni, sugli affetti. Ma anche Ferrara non sa come porsi verso l'uso (o abuso) di una tecnologia che sembra sostituire l'essere umano o il divino, con le parole di un santone che riflette sulla realtà. Nulla viene dato al significato, il simbolo si esaurisce nel puro oggetto, privo di contenuto o, quanto meno, di una effettiva forma intelligibile.





Tanto che persino la scarnissima messa in scena della Fine diviene inescusabile; quella di Ferrara è un Apocalisse sussurrata nelle forme dei filmati di repertorio, evocata tramite le sole parole dei pochi personaggi, ma che non diviene mai catarsi. Quando alla fine avviene, tutto viene lasciato in sospeso, nulla si realizza davvero. L'assenza di significato diviene totale e definitiva, fino a farsi irritante.






Tanto che l'unico modo per cercare di dare dignità a "4:44" è quello di vederlo come una forma di sfogo, l'espressione incontenibile dell'urgenza di un autore di creare qualcosa, a prescindere da cosa voglia effettivamente dire. Poca roba, alla fine dei conti.

2 commenti:

  1. Ho una passione antica per Abel Ferrara, fin dai tempi del Cattivo Tenente... questo però l'ho trovato anche io davvero insipido...

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  2. è il pozzo nero della sua fase calante, poi si è un pò ripreso.

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